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A scuola di moda: la mappa dei corsi in Italia. Leader in creatività, meno forti sul management

Le scuole italiane di moda, pubbliche e private, negli ultimi anni hanno allargato l’offerta, aumentato il business (75-80 milioni il fatturato stimato, il 10% di quello mondiale) e il numero di studenti (circa 25mila, anche se nessuno sa la cifra esatta), ma devono migliorare ancora per stare al passo con i grandi istituti internazionali. Come? Legandosi di più al sistema produttivo, sviluppando le figure tecniche, aggiornando la didattica e i metodi di insegnamento in modo da formare figure nuove, soprattutto nel campo delle tecnologie digitali e della sostenibilità. Solo così diventeranno ancora più attrattive per gli studenti stranieri, che già rappresentano circa il 50%.

Le esigenze della filiera della formazione moda sono emerse alla presentazione del libro bianco “Imparare la moda in Italia” realizzato dal Centro di Firenze per la moda italiana (Cfmi), l’associazione fiorentina che controlla la società fieristica Pitti Immagine, che si è svolta ieri nella sede della Camera di commercio di Firenze. Il libro prende le mosse dal lavoro svolto proprio da Cfmi, attraverso il suo presidente Andrea Cavicchi, al tavolo nazionale della Moda (istituito nel gennaio 2016 dal ministro Carlo Calenda) in qualità di coordinatore della commissione Formazione.

A SCUOLA DI MODA IN ITALIA
I centri di alta formazione per le professioni legate alla moda in Italia, tratta dal libro“White Book. Imparare la moda in Italia” (Marsilio, 2017) di cui si è parlato all'incontro “Moda. L'Italia fa scuola”, organizzato dal Centro di Firenze per la Moda Italiana-CFMI. La pubblicazione è il risultato del lavoro che la Commissione Formazione, coordinata dal Centro di Firenze per la Moda Italiana, ha svolto all'interno del Tavolo Moda e Accessorio, istituito nel gennaio 2016 presso il Ministero dello Sviluppo Economico

«Il libro bianco è il primo tassello per disegnare il sistema della formazione moda in Italia – ha spiegato Cavicchi – partendo dai corsi più qualificati e di livello più alto. L’obiettivo di questo progetto è portare le scuole italiane nel mondo, al pari delle eccellenze manifatturiere, promuovendo l’idea che il capitale umano concorra in modo decisivo a definire i valori del made in Italy». «È una prima mappatura della formazione», ha precisato la curatrice del “White book” Maria Luisa Frisa. Accanto al libro è nato un Manifesto dell’alta formazione di moda in Italia, che elenca una serie di richieste per il futuro governo: un referente nazionale per la formazione moda; un osservatorio misto ministeri-scuole; risorse per promuovere le scuole di moda all’estero; un ranking europeo per valutare in modo affidabile le scuole; norme di accreditamento ministeriali che garantiscano l’effettiva qualità dell’offerta formativa. Il Manifesto chiede anche di superare un problema annoso delle scuole, quello dei visti e delle difficoltà burocratiche che frenano l’arrivo degli studenti extracomunitari.

Sul fronte dell’offerta formativa «le scuole italiane sono molto forti nella parte creativa – ha spiegato Carlo Capasa, presidente della Camera nazionale della moda – tanto da essere le prime al mondo insieme alle scuole inglesi, ma sono meno forti nella parte manageriale: molti manager di gruppi internazionali della moda sono italiani ma non hanno studiato nelle nostre scuole di moda». La critica arrivata da Capasa, soprattutto dopo aver ascoltato Martyn Roberts direttore della Graduate fashion week di Londra che coinvolge 36 Università inglesi e 32 Università straniere, è che «gli inglesi fanno sistema, mentre noi facciamo fatica e dobbiamo ancora imparare».

Da imparare le scuole italiane hanno anche sul fronte della tecnologia: «I corsi sono arretrati – ha spiegato Marco Ricchetti, economista di Blumine – e hanno difficoltà a formare le figure richieste dal mercato. Tecnologie come la blockchain possono sembrare esoteriche ma sono già realtà nel mondo della moda». «Le scuole italiane devono continuare a crescere – ha aggiunto Giovanni Battista Vacchi di EY - attraverso partnership con scuole estere, aperture di filiali all’estero, attrazione di studenti stranieri».

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