Ecco l’ennesimo (apparente) paradosso del sistema moda globale: da una parte ci si interroga un giorno sì e l’altro pure sull’utilità delle sfilate e si fanno analisi tra costi e benefici. I grandi marchi arrivano a spendere milioni di euro per i rispettivi show e nell’epoca di internet c’è chi teorizza di poterli sostituire con spettacoli digitali, magari usando avatar, simulazioni 3D, realtà aumentata. Nessuno l’ha fatto per ora. Anzi: gli investimenti sono aumentati, le location sono sempre più insolite e costose, durante e fuori dalle settimane della moda tradizionali europee e americane.
Questa è solo la prima parte del paradosso. La seconda è che continua ad aumentare il numero delle sfilate, non soltanto la loro spettacolarità: a quelle canoniche (due se il brand fa solo donna o solo uomo, quattro se li fa entrambi, sei se ha anche collezioni di alta moda), si sono aggiunte le sfilate “cruise”. Anche dette “resort”, come raccontato negli articoli a fianco. A differenza delle classiche collezioni primavera-estate o autunno-inverno, presentate rispettivamente in settembre e febbraio-marzo a New York, Londra, Milano e Parigi, le cruise vanno in scena tra maggio e giugno in luoghi sempre diversi. Almeno finora: da domenica prossima al 7 giugno si terrà infatti a New York la prima fashion week delle cruise, alla quale parteciperanno soprattutto brand americani, ma il cui fiore all’occhiello sarà Saint Laurent, previsto per mercoledì 6 giugno, in un rarissimo ”tradimento” della natia Parigi.
Le collezioni cruise sono nate prima delle relative sfilate: come si capisce dal nome, furono inventate in Occidente per chi ha la fortuna di fare viaggi più o meno esotici durante l’inverno e ha bisogno quindi di guardaroba leggeri quando la maggior parte delle persone utilizza abbigliamento pesante. La situazione da qualche anno è molto cambiata: i flussi turistici sono aumentati in modo esponenziale e l’unico a negare cambiamenti climatici globali è Donald Trump. I vestiti e accessori "da mezza stagione” sono oggi forse quelli che più volentieri compriamo, per la loro versatilità. Perché non celebrarli con una sfilata?
Chi per anni ha resistito, come Miuccia Prada, nel 2017 si è arresa: la prima sfilata di questo tipo (che la stilista ha preferito chiamare Resort) è stata a Milano, ma nel 2018 ha scelto New York (si veda Il Sole 24 Ore dell’8 maggio). Dolce&Gabbana hanno trovato una formula ancora diversa: accanto alle sfilate di Milano, donna e uomo, da qualche anno organizzano eventi di più giorni, passando con disinvoltura da luoghi simbolo dell’Italia come Napoli e Palermo, a scelte sorprendenti come Città del Messico. Approfittano per presentare alta moda e alta sartoria, accanto a gioielli e orologi. Karl Lagerfeld per Chanel nel maggio 2016, subito dopo la fine dell’embargo americano, si è spostato fino a l’Havana, per la sua cruise.
Un’evocazione, quella di Cuba, che ci permette di sottolineare un secondo paradosso: sentiamo ripetere che siamo tutti vittime (o colpevoli) di consumismo estremo e che il mondo si riempie di discariche di oggetti di ogni tipo, tessile compreso. Diane von Furstenberg, stilista e presidente della Camera della moda americana, si è spinta a sostenere che «c’è troppo prodotto sul mercato». Eppure le collezioni si moltiplicano,le vetrine dei negozi del lusso cambiano al ritmo di quelle del fast fashion. È un modello sostenibile? Parlando di moda, piaccia o no, quasi certamente sì. Lo spiegò Roland Barthes meglio di chiunque altro: «Ogni nuova moda è rifiuto di ereditare (...). La moda si vive come un naturale diritto del presente sul passato».
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