È tutto cosí brutto là fuori che le voglia di chiuder gli occhi e scappare si fa soverchia. A che pro? L'escapismo diverte, anche a lungo e se si vuole definitivamente, ma risolve poco. Meglio darsi di verso. Osare, anche a costo di fallire.
È dell'idea Alberta Ferretti, la lady di ferro della moda Italiana, capitana d'industria dal polso fermo da sempre promotrice di una visione di stile delicata, fors'anche romantica, mai e poi mai zuccherina. Pragmatica come da copione, in apertura della convulsa kermesse milanese della moda - cinque giorni scarsi di sfilate ed eventi affastellati in un calendario troppo pieno che chiede a gran voce la riforma - la signora Ferretti dichiara che chiudere gli occhi a lei serve per guardarsi dentro, fare una pausa e ripartire più forte di prima. Come non condividere? Ecco una donna che non dispera, dalla quale c'è solo da imparare.
Anche le donne che Ferretti manda in passerella sono volitive ma delicate: a differenza dell'autrice, sempre di nero vestita, prediligono toni pastello e nuance delicatissime che paiono rubate dalla tavolozza di un truccatore. Si moltiplicano le rouche, il sangallo e le trasparenze, ma le scarpe sono piatte, il passo è svelto e le mani stanno in tasca nei pantaloni a banana redolenti di anni Ottanta.
La freschezza dell'immagine è evidente: la proposta di una adolescenza permanente che forse avvicina la linea ammiraglia di Aeffe a Philosophy, la collezione più giovane, ma che nella prospettiva del decisionismo che rinfranca promuove la certezza assoluta è che l'età sia solo un numero. O no?
È presto per dire, ma nel clima plumbeo che impera, i designer milanesi sembrano reagire ai mala tempora con un ritorno deciso alla natura che è più neo-hippie che bucolico, o al limite pacatamente anarchico.
Da Jil Sander i direttori creativi Luke e Lucie Meier lavorano sull'opposizione di libertà e disciplina, principi fondanti di un verbo di stile nel quala la severità non è costrizione, ma nuova occasione espressiva. Questo è il terzo show per la coppia, di certo il più chiaro e a fuoco. L'equilibrio tra rispetto del codice e visione autoriale è ammirevole: le linee esatte, i tessuti fermi e i colori sobri sono quanto si è da sempre abituati a trovare nella casa costruita da Jil.
Però i volumi sfaldati, le gonne corte e il corpo che occhieggia puntano nella direzione, ossimorica ma plausibile, di una carnalità cerebrale. Il teorema di stile in ogni caso è dimostrato: l'uniforme è liberatoria, perchè è dentro i limiti che l'energia deflagra.
Il giovane Arthur Arbesser pensa per pattern geometrici e motivi grafici che adatta al corpo femminile in maniera angolosa e artisticamente disarmonica. Da un paio di stagioni ha iniziato un percorso di ammorbidimento della lingua che sta dando risultati, ma che non è ancora giunto al punto. La visione c'è, e la verve pure. Manca forse la sensualità, anche in dosi minime, perchè l'idea di contrapporre geometrua e carne, freddo e caldo, è in realtà vincente.
È quanto fa da N.21 Alessandro Dell'Acqua, che azzera sui riferimenti stradaioli e le durezze metropolitane per riscoprire il fascino perverso della borghesia. Le gonne al ginocchio, i tacchi a stiletto e le piume occhieggiano agli anni d'oro della couture, ma gli insiemi sono percorsi da idea di inappropriatezza sofisticata che è omaggio evidente a Miuccia Prada, ma anche proposta di un modello che incrina poco poco, pur nell'apparente ortdossia, il perbenismo che avanza strisciante per ogni dove.
Altrimenti, a Milano si fa il salto e si fa a meno del prodotto, perché quel che conta oggi sono le idee. È quanto suggerisce il visionario Remo Ruffini, patron di Moncler, che per il next chapter del progetto senza stagione Moncler Genius sceglie cinque menti - Craig Green, Simone Rocha, Hiroshi Fujiwara, Kei Nonomiya e 1952 - e opta per una video presentazione che occulta i capi - inventivi sotto ogni aspetto - per suggerire solo mood e visioni. In tempi di visibilità totale, il mistero è doppiamente efficace.
© Riproduzione riservata