È l’Italia il paese leader nella produzione di moda di alta gamma. Con un valore della manifattura di lusso che nel 2017 ha superato di poco i 9 miliardi di euro e che, per quasi il 70% (circa sei miliardi, contro i cinque del 2012), è destinato alle aziende italiane mentre per un terzo (3 miliardi circa) ai big player stranieri. Le stime sono state realizzate da Pambianco Strategie di Impresa e presentate ieri in occasione del 23° Fashion & Luxury Summit, organizzato a Piazza Affari in collaborazione con Deutsche Bank. Che a sua volta ha certificato lo stato di buona salute del mercato del lusso: a fine anno le vendite dovrebbero registrare un +8 per cento.
La ricerca di Pambianco, condotta su un campione di 110 aziende italiane con ricavi superiori a 50 milioni di euro, che nel 2017 hanno registrato un fatturato complessivo di 42 miliardi, ha evidenziato che il lusso non può più fare a meno del made in Italy: «Ottantacinque imprese su 100, un numero in crescita del 12% rispetto a quello del 2017, confermano di produrre entro i confini nazionali», ha spiegato il ceo David Pambianco.
E, forse anche per questo, crescono di più rispetto alle realtà di fascia premium e medio bassa (che in Italia, invece, producono solo nel 13% dei casi): l’incremento annuo medio dei ricavi tra il 2014 e il 2017 per le aziende del lusso è stato del 6,4% contro il 4,8% della fascia medio-bassa.
Il made in Italy non è però appannaggio esclusivo delle imprese italiane. Anzi: i gruppi internazionali (in prima fila i conglomerati del lusso francese come Lvmh e Kering, che hanno in pancia storici brand italiani) sono sempre più orientati a produrre nella Penisola. Lo confermano i dati: nel 2017 il valore della manifattura di prodotti di fascia alta esportati in Francia, principale competitor dell’Italia quando si parla di lusso, e in Svizzera, hub logistico dei grandi gruppi del lusso, sono quasi raddoppiati tra il 2003 e il 2017, passando da 3,5 miliardi a 6,7 miliardi di euro.
Passando al prodotto finito, il lusso made in Italy continua ad essere apprezzato in tutto il mondo in maniera pressoché omogenea: il 38% viene venduto nell’area Emea, il 38% in Asia e il 19% negli Stati Uniti. Questo successo sempre più capillare si può leggere anche alla luce della recente ossessione, sviluppata dai consumatori, specialmente se di prodotti di fasci alta, per la qualità del prodotto e del processo produttivo. A spiegarlo è Francesca Di Pasquantonio, head of global luxury research di Deutsche Bank: «Le aziende oggi devono fare i conti con un consumatore più maturo che considera la qualità una commodity e quindi una caratteristica imprescindibile».
Cosa, dunque, può fare la differenza, in un mercato così competitivo e soggetto ai cambiamenti (di gusti, ma anche demografici: si pensi alla rivoluzione Millennials) dei consumatori? L’inclusione dei clienti, con cui oggi il marchio si deve rapportare in modo diretto, “parlando” a una community di persone informate e consapevoli, ma anche l’impiego di nuove tecnologie per stuzzicare il consumatore con un immaginario cool e rendere l’acquisto più appetibile. «È la proposta del brand che crea la domanda» continua Di Pasquantonio, sottolineando come il fatto di mettere in campo queste nuove strategie comporti ulteriori costi alle aziende e come questo abbia accentuato la polarizzazione tra le performance tra aziende medio-piccole e grandi. «Il fattore dimensionale è un elemento di differenziazione sempre più rilevante. Anche sul piano dei rendimenti dei titoli, dal 1°gennaio 2017 le grandi società hanno generato una performance dell’80% contro il 18% delle imprese con capitalizzazione inferiore». Da qui l’esigenza, per le Pmi del made in Italy, di proseguire nel solco di quel “fare sistema” che ormai da anni è il motto del tessile-moda italiano, un settore che, numeri alla mano, supera i 94 miliardi di fatturato e continua a crescere.
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