Parigi, una gelida serata di febbraio del 2011. Fuori da un bistrot del Marais, una coppia sta bevendo tranquillamente una birra, quando all’improvviso sente abbattersi su di sé una scarica di insulti antisemiti. Trenta nel giro di 45 minuti, diranno poi. Quegli insulti provengono da John Galliano, al tempo direttore creativo di Dior e uno dei più apprezzati dell’intera industria della moda. A documentare il tutto appare anche un video (diffuso sui social) con Galliano, visibilmente ubriaco, che dice cose del genere «Io amo Hitler: la gente come te sarebbe morta».
I social non perdonano: la denuncia della coppia e la prova del video portano Galliano al licenziamento. Seguono due anni di oblio, disintossicazione e riabilitazione. Galliano si scusa, ammette di avere un grave problema di dipendenza da alcol, psicofarmaci e droghe. Il buio sarà rotto solo nel 2013, quando l’Anti-Defamation League lo loda per la sua “redenzione”: è un via libera al ritorno, seppur graduale. Oscar de la Renta gli offre di collaborare, ma per sole tre settimane, e Vanity Fair pubblica la sua prima intervista dopo l’accaduto, pagine di mea culpa («è la cosa peggiore che ho detto nella mia vita», disse) con tanto di foto emaciata. Sarà Renzo Rosso, presidente di Otb, a voler rilanciare lo stilista affidandogli la guida creativa di Maison Margiela nel 2014.
Quello di Galliano è forse l’incidente diplomatico più dirompente di sempre nel mondo della moda, ma non è certo l’unico. Anche un’icona come Karl Lagerfeld ha prodotto asserzioni che sono state contestate: criticando la politica di apertura all’immigrazione della cancelliera Angela Merkel, intervenendo a un talk show francese, il direttore creativo di Chanel e Fendi disse «conosco qualcuno in Germania che ha preso con sé un giovane siriano e dopo quattro giorni ha detto: la cosa migliore fatta dalla Germania è stata l’Olocausto». Frase che scatenò le proteste di centinaia di telespettatori.
Sempre il tema dell’Olocausto coinvolse anche Zara, il marchio più importante del gruppo spagnolo Inditex: era il 2014 quando nella collezione bambino venne proposta una maglia a righe che riportava una stella gialla sul petto, e che a molti ricordò la divisa dei campi di concentramento nazisti. Seguirono le scuse, Zara affermò che l’ispirazione era il West (infatti sulla stella c’era scritto “sheriff”), ma il caso era scoppiato e la maglia venne ritirata dagli scaffali. Lo stesso accadde nel 2007 a una borsa che aveva ricamata una svastica verde.
Casi analoghi quello di Umbro nel 2002, che richiamò una scarpa battezzata “Zyklon”, come il gas usato nei campi di concentramento; per Adidas, che nel 2012 aveva messo dei ceppi su delle sneakers, troppo simili a quelli degli schiavi; e nello stesso anno Nike si scusò per aver chiamato delle scarpe “Black and Tans”, lanciate per commemorare la festa di San Patrizio, ma che avevano malauguratamente lo stesso nome di una forza paramilitare che perseguitò i civili irlandesi durante la guerra di indipendenza negli anni Venti.
La Cina non è state tenera con Gigi Hadid e Katy Perry, l’anno scorso, dal momento che impedì loro di partecipare allo show di Victoria’s Secret previsto a Shanghai. Nessuna motivazione ufficiale dalle autorità cinesi, ma l’ipotesi più probabile è che le due siano state “punite” per delle scelte giudicate improprie: Gigi Hadid qualche mese prima era stata aspramente criticata per aver mimato i tratti orientali mentre aveva in mano un biscotto con le sembianze di Buddha o di un samurai, in un video postato dalla sorella Bella.
Ritenuto offensivo, il video era stato prontamente rimosso, anche se è sopravvissuto a lungo nei meandri dei social. Katy Perry, invece, ben due anni prima aveva indossato un abito con applicati dei girasoli per un concerto a Taiwan, che la Cina considera una provincia ribelle, sventolando peraltro una bandiera dell’isola. Non solo: i girasoli evocavano il fiore simbolo del “movimento dei girasoli”, che aveva nel 2014 aveva portato 300 studenti a protestare contro un accordo commerciale con la Cina occupando il parlamento per 24 giorni.
Sempre Gigi Hadid, insieme a Kaia Gerber, è stata al centro di un’altra polemica scatenata da Instagram lo scorso giugno: oggetto delle proteste, stavolta, Jeremy Scott, direttore creativo di Moschino, che aveva pubblicato un post con le immagini della campagna autunno-inverno 2018 “illegal aliens”. Una scelta linguistica giudicata dai follower poco rispettosa dei migranti, e che sembrava evocare le parole e le scelte politiche di Donald Trump. Anche in questo caso, Jeremy Scott ha prontamente reagito con un altro post in cui spiegava che la sua intenzione era proprio criticare il presidente americano.
Anche Valentino e Stella McCartney sono stati criticati, entrambi per delle scelte legate all’Africa: quando la maison romana presentò la sua collezione e campagna per la primavera-estate 2016 ispirata all’Africa, su Instagram molti commenti denunciarono una presunta «appropriazione culturale» da parte di Valentino, accusato peraltro di non aver fatto sfilare neppure una modella di colore con quegli abiti. I direttori creativi di allora, Pierpaolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri, risposero - sempre su Instagram - per spiegare la loro idea: « Le nostre emozioni vero la cultura africana, l’idea di bellezza generata dall’interazione con diverse culture, l’idea di tolleranza, questo è il messaggio che vogliamo comunicare».
La stessa cosa è successa a Stella McCartney, per la collezione PE 2018: quando la designer britannica ha presentato gli abiti realizzati con tessuti Ankara, una tradizionale stampa africana con motivi tribali, mandando pochissime modelle di colore in passerella, descrisse quella stessa collezione, peraltro, come «una gioiosa esplorazione dello stile british». I social reagirono come immaginate.
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