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L’importanza del controllo di Ramadi, città simbolo per il Califfato

Come era accaduto a Mosul, l’esercito iracheno si è ritirato davanti al Califfato anche da Ramadi, questa volta in maniera meno disonorevole rispetto a un anno fa nel Nord ma con conseguenze devastanti dal punto di vista militare e umanitario. Il Pentagono sostiene che la coalizione internazionale aiuterà il governo di Baghdad a riprenderla ma a combattere sul terreno ancora una volta dovranno andare le milizie sciite, per altro temute e detestate dalla popolazione locale sunnita. Dopo i successi nell’uccisione di alcuni leader dell’Isis, tra cui l’operazione delle teste di cuoio americane che in Siria hanno fatto fuori Abu Sayyaf, signore del petrolio dello Stato Islamico, la coalizione a guida americana si confronta con una dura realtà: il Califfato è ancora ben lontano dall’essere sconfitto.

Perché la caduta di Ramadi è significativa? Prima di morire in un raid americano a Baquba nel 2006, il capo di Al Qaeda in Iraq, Abus Musab al Zarqawi, proclamò Ramadi capitale del Califfato. Fu lui a ispirare Abu Bakr Al Baghdadi, fondatore dello Stato Islamico. Circa un decennio dopo il nuovo Califfato erede del giordano Zarqawi si impadronisce di Ramadi, 500mila abitanti, capitale della provincia sunnita di Al Anbar, bagnata dall’Eufrate nel punto in cui l’acqua del grande fiume viene dirottata sul lago Habbaniyya: il suo valore strategico e simbolico è assai evidente.

È un brutto colpo per il governo sciita di Baghdad del premier Abadi ma anche per gli americani che per riprendere il controllo della provincia e dell’Iraq mandarono quello che allora, prima di cadere in disgrazia, era considerato il loro migliore ufficiale, il generale David Petraeus.

Quando il presidente Bush junior decise nel 2003 di abbattere il regime di Saddam Hussein il nome oscuro di questa grande provincia irachena, al-Anbar, era del tutto sconosciuto agli americani. In pochi anni salì alla ribalta come il peggiore incubo per i marines che qui caddero a centinaia per combattere Al Qaeda e la resistenza sunnita.
In un lontano settembre del 2008, che però sembra l’altro ieri, la stampa fu invitata alla cerimonia del passaggio di poteri tra americani e iracheni: sul palazzo del governatorato di Ramadi sventolavano le bandiere tribali, per nascondere quella nazionale che da queste parti, dopo la caduta di Saddam e l’ascesa al potere degli sciiti, nessuno ha mai accettato serenamente. Era un messaggio chiaro per Baghdad: qui comandano le tribù e le milizie del “Risveglio dell'Iraq”, i gruppi paramilitari sunniti che dal 2006 tentavano di riprendere in mano la situazione dando la caccia ad al-Qaida.

Petraeus, nominato nel 2007 comandante in capo in Iraq, aveva capito al volo la situazione. Washington cominciò a sborsare 800mila dollari al giorno, dieci a testa, per ammansire gli 80mila miliziani di al-Anbar, Ramadi, Salahuddin e Baghdad. Un buon affare per il generale Petraeus, che aveva adottato la stessa iniziativa quando all’inizio dell’occupazione nel 2003 era il comandante della piazza di Mosul: la cifra, forse troppo modesta, scompariva a fronte dei duecento milioni di dollari drenati, ogni giorno di guerra, dalle casse americane, ma il sistema funzionava.

In realtà la “surge”, il piano di sicurezza che ridusse per un certo periodo le perdite civili e militari in Iraq, cominciò a dare risultati quando i sunniti avevano già perso la battaglia di Baghdad ed era ormai un fatto compiuto la definizione su base settaria della capitale. La mappa geografica e umana della capitale fu modellata secondo l’odioso schema della “pulizia” settaria e religiosa, con l’espulsione di migliaia di iracheni musulmani e cristiani: in tutto il Paese 2,5 milioni di iracheni vennero costretti a cambiare quartiere, villaggio o città, oltre ai due milioni di profughi che andarono all’estero. Come si vede bene, molto prima dell’Isis l’Iraq aveva drammaticamente cambiato volto.

C’è da chiedersi come mai gli americani non avessero pensato prima ad accontentare i sunniti, visto che l’eliminazione del regime avrebbe consegnato il potere alla maggioranza sciita e ai suoi leader sostenuti dall’Iran. La ragione è nel piano di guerra che prevedeva di occupare l’Iraq soltanto con 140mila uomini e non aveva direttive precise sul dopo Saddam. I generali, e tra questi anche il capo di stato maggiore Eric Shinseki, erano apertamente scettici sulla faciloneria esibita dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Ma si adeguarono alle scelte di un’Amministrazione abbagliata dal piano di rifare, in poche settimane, la mappa politica del Medio Oriente. Oggi che la Siria è devastata, l’Iraq in pezzi e la regione percorsa da guerre continue, dallo Yemen alla Libia, quella disastrosa classe dirigente torna alla ribalta tentando di impedire che il presidente Barack Obama firmi un accordo sul nucleare con l’Iran, l’unico Paese sceso subito in campo contro l’Isis.

Allora l’idea peggiore la ebbe il proconsole americano Paul Bremer III, ovvero sciogliere l’esercito iracheno per epurarlo dagli ufficiali fedeli al partito Baath: le forze armate, che avevano combattutto per otto anni in Iraq e poi in Kuwait, erano il simbolo della fragile unità di un Paese diviso tra sunniti, sciiti e curdi. Il risultato è che l’esercito iracheno, mai davvero ricostruito in senso nazionale, si è liquefatto davanti all'avanzata del Califfato. Non solo. Molti ufficiali delle forze armate di Saddam sono finiti a rafforzare le file dell’Isis: persino sull’uccisione di Izzat al Douri, uno degli uomini chiave dell’ex regime che hanno aiutato il Califfo Al Baghdadi, sussitono adesso ancora forti dubbi.

In Iraq, in Medio Oriente e anche in Europa, ai nostri confini, si pagano gli errori di un decennio perduto, di anni consumati dalle locuste della cattiva politica, come avrebbbe detto lo storico britannico Tony Judt. Gli europei allora avallarono le decisioni americane e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

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