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La Grecia scherza col fuoco del default. Cosa insegnano i «divorzi…

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TIMORI DI GREXIT

La Grecia scherza col fuoco del default. Cosa insegnano i «divorzi monetari» del passato

La Grecia rischia tutto ma scherza col fuoco del default, anche se, nei fatti, il fallimento non sarebbe immediato. Il limite estremo, però, sta per essere raggiunto. A meno di tre settimane dalla scadenza dei termini per il rimborso al Fmi (1,6 miliardi di euro) e dell’estensione del secondo piano di salvataggio (che prevederebbe esborsi a favore di Atene per 7,2 miliardi) il governo Tsipras prova a fare prevalere la scelta politica su quella tecnocratica dei creditori. Avanzo primario, Iva, pensioni, privatizzazioni sono fra i nodi più intricati del negoziato, che oscilla da mesi tra l’avvicinamento a un passo dall’accordo al rovesciamento del tavolo.

È successo anche ieri, quando dopo il vertice della notte precedente a Bruxelles fra Merkel, Hollande, Juncker e Tsipras, terminato con una promessa - pur vaga - di intensificare i negoziati, e mentre il premier greco incontrava di nuovo (clima definito «amichevole», dopo le scintille dei giorni precedenti) il presidente della Commissione europea, il capo della comunicazione del Fondo monetario, Gerry Rice (che poi ha parzialmente stemperato) ha attaccato il governo greco e ha dato notizia del ritorno alla base della delegazione dell’istituzione di Washington. Con un nulla di fatto, ovviamente.

Nel corso della giornata il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann aveva avvisato: per Atene, di questo passo, il rischio default non fa che aumentare «di giorno in giorno».

A questo punto ci sarebbe da scommettere su un accordo purché sia (come chiesto più volte dgli Stati Uniti), ma all’ultimo respiro. Perché se è vero che diverse analisi - da quella del presidente dell’istituto tedesco di ricerche economiche Ifo, Hans Werner Sinn, a quelle di diversi operatori di mercato - sostengono che l’impatto di un default greco sarebbe «strutturalmente» limitato, secondo altri, per esempio l’economista Lucrezia Reichlin della London School of Economics, gli effetti di un crack potrebbero essere gravissimi sul versante politico, destabilizzando l’intera Eurozona.

Il World Economic Forum si è esercitato nella rappresentazione di alcuni scenari possibili nel caso in cui la situazione dovesse volgere al peggio. In un articolo si ricorda che secondo Oxford Economics ci sono stati più di 70 “divorzi” da unioni monetarie a partire dal 1945. Tre sono i casi che presentano analogie con la crisi greca: Irlanda nel 1979, Slovacchia nel 1993, quando si separò consensualmente dalla Repubblica Ceca, e l'Argentina nel 2002, quando abbandonò la parità peso-dollaro.

Ritorno della dracma, dopo una forte svalutazione
L’Argentina ha svalutato inizialmente di quasi il 30%, la Slovacchia del 10%. Ma Barclays ha stimato svalutazioni al 45-85% per i Paesi in una situazione simile alla Grecia. La Banca di Grecia dovrebbe battere una nuova moneta in tempi rapidissimi e non è detto che la manovra riesca. Le banche commerciali sarebbero in una posizione di vulnerabilità estrema. I tassi di interesse salirebbero mettendo in difficoltà anche altri Paesi dell’area euro, in primis Italia e Spagna. Per le aziende greche inizierebbe una fase di seria sofferenza sul fronte del credito e come conseguenza della svalutazione, che renderebbe molto più onerose le importazioni.

La corsa agli sportelli
La Banca centrale europea, che fino ad ora ha sostenuto con la liquidità d’emergenza (Ela) le banche greche, non lo farebbe più. La Banca di Grecia si troverebbe alle prese con la missione impossibile di frenare la corsa agli sportelli, peraltro già in atto da mesi (si veda il grafico), visto che dai depositi bancari del Paese ellenico sono usciti circa 30 miliardi negli ultimi mesi. Scatterebbe un meccanismo di controllo dei capitali, come già è accaduto durante la crisi di Cipro del marzo 2013, quando le banche sono state chiuse per giorni. Andò analogamente per Irlanda, Slovacchia e Argentina. Buenos Aires congelò i depositi per un anno dal dicembre 2001, il famoso Corralito.

Crollo seguito da una ripresa più o meno rapida...
Dal 1945, ricorda il Wef, solo l'8% delle uscite da sistemi di valuta comune ha registrato crolli del Pil superiori al 20 per cento. Alcuni analisti vedono un parallelo tra una eventuale Grexit - l’uscita di Atene dall’euro ormai auspicata da una buona fetta della società tedesca e, cosa più importante, da una parte del partito della cancelliera Merkel, la Cdu - e la separazione di Repubblica Ceca e Slovacchia. Il Pil slovacco cadde di appena il 4% prima di riprendere a salire. Oxford Economics prevede per il Pil greco una caduta limitata, pari al 10 per cento e dice anche che in due casi su tre i Paesi usciti da un’unione monetaria sono ripartiti nell’anno stesso del default, con una crescita media del 2,7 per cento. Una delle chiavi per la rinascita è il recupero rapido di competitività grazie alla drastica svalutazione, anche se nel caso della Grecia la scarsa diversificazione dell’economia, già molto provata dalla crisi, sarebbe un serio ostacolo alla ripartenza.

Oppure una fase protratta di caos?
Slovacchia e Repubblica Ceca hanno impiegato appena cinque settimane per la transizione alle nuove valute. Per l'Argentina è stata molto più dura: c’è voluto più di un anno per superare l’impasse dello sganciamento dal dollaro, con il Pil in caduta del 14,5%. Per la zona euro, che non ha mai messo nel conto la possibilità di un’uscita (i trattati non lo prevedono espressamente e il presidente della Bce Mario Draghi ha sempre sostenuto l’irreversibilità dell’euro) un default disordinato potrebbe rendere più complicata e caotica la fase di cambiamento e il danno all’economia greca potrebbe essere ancora più profondo e duraturo.

Borsa in caduta libera?
La Grecia potrebbe seguire la strada dell’Argentina anche sul versante dell’andamento dei mercati finanziari. La Borsa di Buenos Aires perse il 70% subito dopo il default ma in capo a due anni toccò nuovi massimi. In linea puramente teorica, quindi, non è da escludere un rimbalzo anche per la Borsa di Atene.

Chi ci rimetterebbe di più
Solo una cinquantina di miliardi di euro dell’attuale debito greco su un totale di oltre 300 (circa il 3% del Pil dell’area della moneta unica) sono detenuti dal settore privato. Il resto è ormai a carico dei governi (soprattutto dell'Unione Europea, Germania su tutti) e delle istituzioni sovranazionali come il Fondo monetario internazionale, i quali rischiano di non rivedere mai più i loro soldi. Dopo la ristrutturazione da 100 miliardi di euro nel 2012 i rischi associati con il debito sovrano ellenico sono passati dal sistema bancario al settore pubblico dell'area euro. Cioè ai contribuenti. Questo potrebbe essere un argomento forte per convincere la ex Troika, oggi Brussels Group, a non abbandonare Atene al suo triste destino.

Oltretutto, se si aggiungono le imprese e le banche il totale del buco finanziario è più vicino a 500 miliardi, il maggiore della storia moderna, dopo il crack della banca d’affari Lehman Brothers nel 2008. A questa montagna di denaro si devono poi aggiungere i saldi Target 2, pari a circa 100 miliardi di euro. Il totale del default greco arriverebbe quindi a 600 miliardi. Anche se, secondo Schroders, il rischio di contagio «è stato in teoria azzerato dal lancio dello European Stability Mechanism (Esm), il fondo salva-stati. La riserva di capitale, circa 500 miliardi, dovrebbe assicurare il flusso di liquidità per gli Stati colpiti, se dovesse sorgere una minaccia a causa del default greco».

La vera incognita, il rischio politico
Naturalmente non tutto è prevedibile, nemmeno la reazione dei mercati. Non «va esclusa - sostiene sempre l’analisi di Alan Cauberghs, di Schroders - la possibilità che esistano legami finanziari per ora sconosciuti, né che ci siano implicazioni indirette e di natura politica».

Ecco la parola magica: politica. Abbiamo già visto che tipo di ricadute ha avuto l’accelerazione della crisi greca negli ultimi mesi. In Spagna il movimento anti-austerity Podemos ha registrato un forte avanzamento, mentre i partiti tradizionali hanno perso milioni di voti. In Polonia è stato eletto un presidente di destra. In Gran Bretagna è stata premiata la volontà del premier Cameron di portare il Paese a un referendum sull’uscita dall’Unione europea.

Se per i mercati quindi l’uscita della Grecia potrebbe tradursi in un grave deficit di credibilità circa l’irreversibilità dell’unione monetaria proclamata da Draghi (con conseguenze prevedibili su spread e tassi, cosa che metterebbe in difficoltà l’Italia, con il suo debito da 2.200 miliardi), sul piano politico Grexit potrebbe innescare un effetto domino. Dagli esiti drammaticamente imponderabili. (Al.An.)


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