La Federal Reserve non cambia strada. Le molte novità nell’economia mondiale che si sono sviluppate dopo la riunione del 16 dicembre 2015 e che hanno per esempio spinto la Banca centrale europea ad annunciare per marzo un riesame della propria politica monetaria, sono considerate «transitorie» dall’autorità monetaria degli Stati Uniti. Quello che per lei conta, emerge dal comunicato della riunione di gennaio, è l’occupazione.
La differenza più rilevante nel documento, rispetto alla versione di dicembre, è proprio nell’enfasi data ai successi sul mercato del lavoro, le cui condizioni «sono migliorate ulteriormente, anche se la crescita economica ha rallentato alla fine dell’anno scorso». La Fed riconosce che gli investimenti ormai crescono a un ritmo «moderato» e non più «solido», ma preferisce concentrarsi sui «forti aumenti dell’occupazione» che segnalano «un’ulteriore riduzione nella sottoutilizzazione delle risorse del lavoro».
È per questo motivo che la Fed non è preoccupata delle pressioni al ribasso sull’inflazione. Ammette, e questa è una novità, che «l’inflazione è attesa bassa nel breve termine, in parte a causa delle ulteriori flessioni del prezzo dell’energia», ma ripete che potrà «salire al 2% nel medio termine quando gli effetti transitori dei prezzi dell’energia e di quelli all’importazione svaniranno e quando il mercato del lavoro si rafforzerà ulteriormente». Ha riconosciuto che le aspettative di inflazione misurate dal mercato sono ulteriormente calate, ma è noto che la Fed dà loro un valore limitato rispetto alle attese derivanti dai sondaggi che «sono poco cambiate, tutto considerato, negli ultimi mesi» (a dicembre apparivano invece in lieve calo).
Alle turbolenze dell’economia globale è dedicata solo una breve frase: «Il Comitato sta monitorando da vicino gli sviluppi economici e finanziari globali e sta valutando le loro implicazioni per il mercato del lavoro e l’inflazione» oltre che per i rischi alle previsioni. Il semplice segnale che non sono e non saranno ignorate.
Il messaggio è chiaro: il mercato del lavoro si rafforza, l’output gap - la differenza tra il valore aggiunto effettivo e quello potenziale - si sta riducendo e quindi, prima o poi, l’inflazione ripartirà. Dietro questo ragionamento economico c’è quella che si chiama la curva di Phillips, una relazione statistica, molto variabile, tra l’occupazione e l’inflazione. La logica economica di questa relazione che nel mercato del lavoro può essere individuato nel fatto che una forte domanda spinge in alto i salari, quindi la domanda di beni di consumo e quindi i prezzi.
Negli Usa il nesso tra occupazione e inflazione è generalmente più forte che in Eurolandia e la Fed vi ha spesso fatto affidamento. Sta accadendo anche ora, suscitando come sempre discussioni tra gli economisti. Quella descritta dalla curva di Phillips è stata considerata a lungo una relazione di breve periodo, non perchè non sia valida, ma perché è molto variabile ed è difficile usarla come guida su un orizzonte temporale più lungo.
La Federal reserve sta ora scommettendo sulla tenuta della relazione tra la riduzione del gap della produzione e dell’occupazione rispetto alle potenzialità dell’economia proprio nel medio periodo. Nessuna revisione della politica - come ha invece annunciato la Bce - quindi può essere dedotta dal comunicato di gennaio. Al momento la Federal reserve, che ha iniziato la stretta a dicembre e potrebbe alzare i tassi altri tre-quattro volte quest’anno, non cambia rotta.
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