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Pechino in manovra, balzo dello yuan

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mercati sotto stress

Pechino in manovra, balzo dello yuan

Dalla turbolenta Cina arrivano segnali di stabilità. Lo yuan “offshore” si è apprezzato sul dollaro di oltre l'1%, salendo a 6,495. Si tratta del più forte rialzo quotidiano per la divisa cinese in 10 anni.A spingerne gli acquisti sono state le parole nel week end del governatore della People's Bank of China, Zhou Xiaochuan, secondo cui non ci sono motivi per ulteriori svalutazioni della divisa. Non è la prima volta che lo dice ma ieri i mercati gli hanno dato credito. La stessa banca centrale in mattinata ha fissato il cambio ufficiale con il dollaro a 6,5118, lo 0,3% in più dell'ultimo valore (quello fissato venerdì 5 febbraio perché per tutta la scorsa settimana la Borsa cinese è rimasta chiusa) andando così a riflettere il ribasso del dollaro sulle principali valute dell'ultima settimana (dato che i mercati ormai hanno cancellato l'ipotesi di una stretta a marzo negli Usa).

Quel che più conta, però, è che ieri si è quasi azzerato lo spread tra i due yuan, quello “offshore” (che fluttua liberamente sui mercati, quotato ad Hong Kong, e che “gioca” in anticipo sulle aspettative delle mosse future della People's Bank of China) e quello ufficiale fissato dalla banca centrale (sulla base di una banda di oscillazione con il dollaro). «A inizio anno lo spread tra i due yuan era di 14 punti base, quello offshore era a 6,69 contro un dollaro, quello ufficiale e semi-rigido a 6,55 - spiega Marco Jean Aboav, macro portfolio manager di MoneyFarm -. Ieri abbiamo assistito a un allineamento tra i due cambi (spread scese a 2 punti base, ndr). È stato un bel segnale, perché uno yuan più stabile fa bene a tutti. Tuttavia credo che nel medio periodo assisteremo a nuove svalutazioni, anche se al momento il mercato non le sconta, come dimostra l'annullamento dello spread tra i due cambi registrato ieri».

Lo yuan o renminbi, che vuol dire «moneta del popolo», è in questo momento molto significativo per misurare il clima di tensione sui mercati. Lo è diventato in particolare da agosto quando la People's Bank of China ha deciso a sorpresa di svalutarlo. Da allora sui mercati è iniziata la discesa delle asset class più rischiose, come le azioni. Se Pechino taglia il valore della propria divisa - e lo ha fatto anche il 4 gennaio - non lancia un bel segnale su scala globale perché lascia presagire un rallentamento della crescita in Cina con spinte al ribasso sulle altre economie e sul prezzo del petrolio. Così da agosto gli operatori delle sale finanziarie guardano con molta attenzione un altro spread, non quello tra BTp e Bund, ma quello tra “yuan offshore” e “yuan ufficiale”. «Lo guardiamo tutti i giorni, è un termometro utile per misurare il livello di tensione sui mercati ed è correlato all'andamento delle Borse - prosegue Aboav -. Più sale questo spread, più i mercati si aspettano nuove svalutazioni dello yuan e questo fa scendere le Borse».

Ieri sui mercati abbiamo assistito esattamente all'opposto. Lo “spread cinese” si è ricomposto e le Borse hanno corso. Si è visto anche un ulteriore effetto, sui tassi dell'Eurozona. Con uno yuan più stabile diminuiscono le probabilità che la Cina esporti deflazione. E questo ha fatto salire i rendimenti dei Paesi “core” dell'area euro, con il Bund a 10 anni che si è portato a ridosso dello 0,3% (la settimana scorsa era a 0,17%). Non è un caso poi se l'indice “5y5y europeo” - che misura le aspettative di inflazione nell'Eurozona nei prossimi cinque anni - è risalito portandosi dall'1,44% di venerdì - minimo di tutti i tempi da quando esiste l'euro - a 1,48%. Siamo ancora anni luce lontani dall'obiettivo del 2% ma se non altro la reazione è stata lineare: se lo yuan si stabilizza diminuiscono in parte quelle che lo stesso governatore della Bce Mario Draghi ha definito «pressioni globali contro l'inflazione». Quello della Cina pare un tentativo di normalizzazione del cambio in un contesto che resta fosco, perché proprio ieri dall'economia cinese sono arrivati dati poco incoraggianti: a gennaio l'export è calato del 6,6% a circa 174 miliardi di dollari. È diminuito anche l'import (-14,4% a 114,2 miliardi) segnale che la domanda interna - sulla cui espansione si orienta il piano poliennale delle autorità cinesi - resta debole.

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