
Il tempo della diplomazia sta per scadere. Dopo l'ennesimo rinvio del voto per approvare il nuovo Parlamento libico di unità nazionale, alla cui formazione l'Onu ha lavorato a lungo come mediatore, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia stanno lavorando a un piano alternativo nel tentativo di fronteggiare la pericolosa avanza dello Stato islamico nell'ex regno di Muammar Gheddafi e stabilizzare il Paese.
Sul tavolo ci sarebbe, pur senza conferma, anche la possibilità di spartire la Libia in tre entità principali: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Una soluzione adottata oltre un secolo fa dall'Amministrazione ottomana, che presenta non pochi problemi. Ma che avrebbe il vantaggio di frenare le ambizioni e il sostegno alle rispettive milizie da parte di potenze regionali, come Egitto, Turchia, Qatar ed Emirati. Il piano B potrebbe anche prevedere – ma sono tutte ipotesi – di concentrarsi sulla Tripolitania, regione in mano alla coalizione di islamici – moderati e meno moderati - che nell’agosto 2014 hanno conquistato Tripoli, installando un Governo rivale. Perché è qui che ci sono le maggiori installazioni petrolifere e le infrastrutture chiave, come porti e aeroporti. In questa regione verrebbe dunque schierato un contingente militare per stabilizzare l'area e difenderla dall'offensiva dello Stato Islamico. Il parlamento di Tobruk, considerato laico e riconosciuto dalla Comunità internazionale, e in guerra con quello di Tripoli, sarebbe come tagliato fuori. Quest'ultima opzione appare tuttavia più come una minaccia rivolta al Parlamento di Tripoli che un'azione imminente.
La missione militare internazionale per stabilizzare il Paese, a cui Francia e Gran Bretagna sono disposte a contribuire insieme all'Italia per un numero complessivo di circa 5mila soldati, era sempre stata considerata possibile solo dopo la formazione di quell'atteso governo di unità nazionale che da mesi tuttavia continua ad essere rinviato. Con l'imponente raid aereo americano, avvenuto la scorsa settimana contro postazioni e campi di addestramento dell'Isis a Sabratha, sulla costa occidentale della Libia (le vittime sarebbero 50), gli Stati Uniti hanno chiarito un punto: non staranno con le mani in mano mentre i jihadisti avanzano giorno dopo giorno minacciando le maggiori installazioni petrolifere del Paese con il fine ultimo di creare un vero Califfato islamico alle porte dell'Europa.
«Agiremo ogni volta che verrà individuata una minaccia diretta», aveva dichiarato la Casa Bianca, senza specificare cosa fosse esattamente la minaccia diretta. Con questa dichiarazione, che apre un largo margine di discrezionalità, Washington sembra autorizzarsi ad attaccare volta per volta qualunque base dell'Isis.
Delusi per i continui fallimenti nella formazione di un Governo libico di riconciliazione, anche alcuni alleati europei di Washington si stanno allineando alla nuova posizione della Casa Bianca. Posizione a cui sembra avvicinarsi anche Matteo Renzi: «Se ci sono iniziative contro terroristi e potenziali attentatori dell'Isis, l'Italia farà la sua parte insieme con gli alleati», ha detto il premier italiano. L'Italia, tuttavia, sembra ferma nella sua posizione espressa in precedenza: nessuna partecipazione ad azioni militari su larga scala senza una cornice legale. Il che si traduce senza la richiesta proveniente da un governo riconosciuto. Ma senza i nostri aeroporti, così vicini alle coste libiche, non sarà possibile una grande campagna aerea a livello internazionale. La sola azione che, forse, fermerebbe concretamente l'Isis.
La Francia, invece ha compiuto un passo avanti. Secondo il quotidiano Le Monde, Parigi sta già conducendo in Libia delle operazioni militari “non ufficiali” contro l'Isis. Operazioni mirate – e segrete – condotte da reparti di truppe speciali (si parla di 180 militari già operativi sembra in Cirenaica) e raid aerei contro la leadership dell'Isis.
Dopo il rinvio avvenuto lunedì, anche ieri è arrivata una fumata nera. I riottosi onorevoli del Parlamento libico in esilio di Tobruk, non sono riusciti a trovare un accordo sulla lista dei ministri. Motivo: mancanza del quorum legale. Meno di 89 parlamentari su un totale di 200 si sono presentati in aula. Il voto è stato rimandato alla prossima settimana ma le premesse, a questo punto, non sono incoraggianti. Era stato proprio il parlamento di Tobruk a bocciare, lo scorso 19 gennaio, la corposa lista di 32 ministri presentata dal premier designato Fayezz al-Serraj. La nuova lista è molto più asciutta; tredici i ministri, più cinque “ministri di Stato”. Un totale, dunque, di 18 dicasteri, tra cui tre affidati a donne.
In teoria, per garantire la fiducia al Governo, sarebbero necessari 134 voti su un totale di 200. Ma già la scorsa settimana Ali al-Qatarani esponente del Consiglio di presidenza libico e leader dell'influente gruppo dei parlamentari dell'area di Brega aveva fatto sapere che i suoi 45 onorevoli non voteranno la fiducia. A loro si aggiunge un indeterminato numero di parlamentari vicini al generale Khalifa Haftar, comandante dell'Esercito libico fedele al governo di Tobruk, ma a quanto pare estromesso dagli ultimi accordi raggiunti in Marocco. I suoi fedelissimi non accettano alcuni nomi del nuovo governo di unità perché considerati troppo vicini ai Fratelli musulmani.
Il problema è proprio il dicastero della Difesa e la nomina del capo di stato maggiore delle forze armate. Il ministro della Difesa designato è Al-Mahdi al-Barghathi. Un ex comandante militare che fa parte del blocco Dignità di Tobruk, il quale, tuttavia, non nutre una profonda simpatia verso Haftar, l'uomo sostenuto, finanziariamente e politicamente, dall'Egitto. In passato agli ordini del generale Haftar, Barghati ha poi ricevuto un benvenuto dalle milizie filo-islamiche di Tripoli. Da gennaio la sua nomina è così al centro di forti divisioni tra le fazioni libiche rivali. Per diverse ragioni - perché accusato di esser stato un uomo del regime - la designazione di Mohamed al-Taher Siala agli Esteri ha invece contrariato diversi esponenti del governo di Tripoli . I quali lo accusano di esser stato viceministro degli Esteri e ministro della Cooperazione negli ultimi anni del regime. Non è dunque esclusa l'ennesima correzione della lista dei ministri. Ma bisogna farlo in fretta. Secondo fonti dell'intelligence Usa riportate dal New York Times, nelle ultime settimane l'Isis ha raddoppiato il numero di combattenti in Libia, reclutandone molti dai vicini Paesi africani e portando il loro numero da 3mila a 6.500. L'obiettivo sarebbe creare un Califfato come quello presente in Siria e Iraq.
Mai come ora il Governo di unità è urgente. Anche per cercare di riportare su volumi accettabili la produzione petrolifera. Che, secondo Mustafa Sanalla, il capo della compagnia petrolifera nazionale della Libia, galleggia intorno ai 360-370mila barili al giorno, meno di 1/4 rispetto ai livelli precedenti la rivoluzione. «Se non verrà formato il Governo di unità gli attacchi alle installazioni petrolifera aumenteranno», aveva ammonito Sanalla. Un avvertimento preso alla lettera dai jihadisti. Ieri i miliziani dell'Isis hanno colpito altre due installazione petrolifere distruggendo due depositi di greggio a Sida. E non saranno certo gli ultimi.
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