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Alle elezioni dell'Iran post-embargo avanzano i riformisti

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Alle elezioni dell'Iran post-embargo avanzano i riformisti

TEHERAN - Lo “squalo” è soddisfatto: insieme al presidente Hassan Rohani - per il quale questo voto era una sorta di referendum sulla sua politica moderata - Hashemi Rafsanjani, storico padrino della repubblica islamica, è in testa nella prestigiosa corsa dei turbanti, l'Assemblea degli Esperti.

Ha lasciato distanti gli ultraconservatori Ahmad Jannati e Mesbah Yazdi, il primo capo del onnipotente Consiglio dei Guardiani, il secondo un religioso radicale secondo il quale «il popolo è un gregge che deve essere guidato». L'Assemblea degli Esperti, quasi tutti “old boys” ottantenni in un Paese dove il 60% è sotto i 35 anni, è il conclave degli ayatollah che nomina la Guida Suprema, la massima istanza dell'Iran. È qui che la rivoluzione, come una vecchia signora che vuole ancora piacere, si rifà il trucco.

Il quadro delle elezioni per i 290 seggi del Parlamento è frammentato, i risultati sono ancora parziali anche se i riformisti a Teheran si aggiudicano 29 seggi su 30: la loro lista contende la vittoria a quella dei conservatori mentre un nugolo di candidati indipendenti formerà il “partito del vento”, che ondeggia tra l'appoggio al governo e quello ai duri e puri della repubblica islamica.

Chi comanderà dunque in Iran dopo le elezioni? «Ma gli stessi di prima, e me lo domandi pure!” sbotta un ragazza con gli occhiali da sole sul velo seduta in un caffè alla moda della dorata gioventù di Teheran Nord: «Qui è tutto sotto controllo e c'è sempre qualcuno che ci “guida”». Quasi ogni sera, prima delle elezioni, la Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, è comparso in tv ad ammonire gli iraniani «a non farsi contaminare dall'Occidente». La fine delle sanzioni non significa un'apertura politica: è questo il messaggio che doveva passare in questa tornata elettorale.

Dopo l'accordo sul nucleare gli avvertimenti dei radicali sono stati insistenti, a riprova del timore che dopo la rimozione delle sanzioni la situazione potesse sfuggire di mano. E puntualmente scatta l'oliato meccanismo che tiene in piedi l'apparato ideologico della repubblica islamica degli sciiti fondata dall'Imam Khomeini nel '79.

Nessuno dei riformatori doveva diventare troppo influente e nessuno deve essere screditato al punto di far perdere credibilità al sistema. Quindi ai conservatori viene assegnata una consistente rappresentanza in Parlamento, dove prima erano in maggioranza, mentre a Teheran l'elezione per gli 88 membri dell'Assemblea degli Esperti, incaricata di nominare quando sarà il momento il successore di Khamenei, vede vincitori Rohani e Rafsanjani, portabandiera dei moderati ma anche i principali referenti dei riformisti, falcidiati a migliaia nelle selezioni pre-elettorali dal Consiglio dei Guardiani che con magistratura e Pasdaran costituisce il cuore del potere sotto la direzione della Guida.

Se i risultati elettorali sono ancora provvisori il sistema della repubblica islamica è chiaro: tutto avviene nella famiglia rivoluzionaria, all'interno di un'oligarchia di “insider” che garantisce alcuni spazi di competizione politica sorvegliati da Guida Suprema e Consiglio dei Guardiani: gli elettori hanno una scelta limitata ma diventano con il voto gli arbitri di una lotta tra le élite: è così che si costruisce la legittimità, a seconda dei momenti e delle opportunità.

La politica iraniana è come un pendolo: non solo oscilla tra Oriente e Occidente ma si muove in sincrono con le stagioni politiche. Quando occorre abbassare la pressione e i vertici intuiscono che la popolazione diventa ostile al regime, come alla fine della presidenza di Ahmadinejad, allora alza la barriera e fa entrare nell'arena i candidati riformisti e moderati: è così che nel 2013 è salito al potere Hassan Rohani. «Negli otto anni di Ahmadinejad - fa notare l'economista Said Leylaz - il 70% della popolazione ha visto crollare drasticamente le proprie entrate».

La candidatura di Rohani nel 2013 serviva a ridare smalto a un sistema assai opaco e restituire credibilità sul piano internazionale: ha in gran parte assolto le sue funzioni ottenendo la fine delle sanzioni. Ma il Barjam, l'accordo sul nucleare, è stato anche percepito come un pericolo dai duri e puri: l'apertura esterna doveva essere frenata. E così questa volta i candidati riformisti sono stati censurati dal Consiglio dei Guardiani, che ha lasciato la competizione aperta al campo conservatore permettendo persino che votassero agli arresti domiciliari Medhi Karrubi e Hussein Mousavi, i leader dell'Onda Verde delle proteste di massa del 2009.

È un sistema che ha un saldo controllo sull'economia. La fondazione Setad controllata da Khamenei tra portafoglio immobiliare e quote societarie è una holding da 90 miliardi di dollari con un valore superiore alle esportazioni petrolifere dello scorso anno. I Pasdaran, braccio militare del regime, attraverso la Khatam Al Anbia, il Sigillo del Profeta, manovrano affari per 140 miliardi di dollari l'anno. Il 70% di un'economia da 425 miliardi di dollari l'anno in pratica è in mano ai conservatori. Ora ci interrogherà se questo è un Iran più disponibile alla pace o alla guerra, oppure se è più o meno lontano dall'Occidente, ma forse la domanda è sbagliata: è un Iran pragmatico che sceglie la sopravvivenza di un sistema repressivo che non può piacere ma è ancora uno dei più stabili nel marasma del Medio Oriente.

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