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Perché i politologi non hanno capito Trump e Hillary Clinton e gli…

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Perché i politologi non hanno capito Trump e Hillary Clinton e gli statistici sì

A novembre (ne sembra passato di tempo) osservavo che la campagna per la nomination repubblicana stava mettendo un po' in crisi i politologi. La forma mentis «è il partito che decide» li spingeva, nella larga maggioranza dei casi, a pronosticare una convergenza su un candidato dell'establishment come Jeb Bush o Marco Rubio, invece della disfida fra Mussolini e Torquemada a cui stiamo assistendo oggi.

Arrivati a questo punto, voglio essere più specifico: nel mondo dei politologi di professione esisteva un punto cieco, l'incapacità di vedere la trasformazione del Partito repubblicano in una formazione estremista. E Norman Ornstein dell'Atlantic, che non si è coperto gli occhi di fronte a questa realtà, è andato molto più vicino al bersaglio della gran parte dei suoi colleghi.
Ma se in autunno i politologi avevano fatto un buco nell'acqua, da quando la stagione delle primarie si è messa in moto il loro bilancio è tutt'altro che negativo, almeno se lo si confronta con quello dei tradizionali commentatori politici.
Possiamo vederla così: nella campagna ci sono state due narrazioni. Una è piena di alti e bassi, forze di inerzia e clamorosi capovolgimenti. Donald Trump è condannato! La vittoria di Trump è inevitabile! Bernie Sanders ne ha vinte sette di fila! Dopo New York non ha più speranze!

L'altra narrazione vede la campagna come una corsa senza particolari sobbalzi, con i risultati nei diversi Stati che in generale riflettono le differenze demografiche. In quest'ottica, la metafora della forza di inerzia non è azzeccata, perché tratta fattori che sono poco più che un rumore di fondo – per esempio, una striscia di Stati a netta predominanza bianca con primarie aperte, che favoriscono Sanders – come un segnale. Come ha osservato il politologo Alan Abramowitz, la corsa alla nomination democratica può essere interpretata in linea di massima sulla base di un modello in cui i fattori che determinano la percentuale di Hillary Clinton sono soltanto tre: se la primaria si tiene in uno Stato del Sud, la percentuale di afroamericani e la percentuale di democratici (rispetto agli indipendenti) nelle elezioni. (Se volete approfondire l'analisi di Abramowitz, la trovate qui: bit.ly/26rGG0M).

Insomma, la recente, larga vittoria della Clinton a New York non è stato un clamoroso ribaltamento dell'inerzia di una campagna che pendeva a favore di Sanders: era quanto ci si poteva aspettare in uno Stato la cui composizione demografica ricalca molto più da vicino quella del Partito democratico nel suo complesso rispetto agli Stati in cui Sanders aveva vinto nelle settimane precedenti. (Si noti che il vantaggio complessivo della Clinton nel voto popolare, il 15 per cento, coincide quasi alla perfezione con lo scarto con cui ha vinto a New York.)
La sostanza è che l'analisi statistica ha regolarmente messo in ombra la categoria degli opinionisti. La scienza politica quantitativa gode di ottima salute.

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