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Il «circolo vizioso» che frena la produttività

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Il PIANO DEL MINISTERO

Il «circolo vizioso» che frena la produttività

  • –Carmine Fotina

Un circolo vizioso: la sfiducia innescata dalla crisi ha contratto gli investimenti, fattore che ha reso perdurante la stagnazione della produttività e impedito finora un rialzo vigoroso dell’economia. Non è un commento accademico, ma un passaggio della prima versione del piano “Manifattura Italia” che il ministero dello Sviluppo economico si accinge a lanciare con una consultazione pubblica. «Negli anni - si legge nel documento - l’Italia ha evidenziato un decremento di produttività, sia di lavoro sia di capitale, perdendo competitività nei confronti di Paesi come Germania e Francia».

E non è solo un esercizio comparativo, perché all’analisi statica del fenomeno nei prossimi mesi bisognerà sapere accompagnare misure che ci riallineino o almeno ci avvicino ai competitor che si sono mostrati più reattivi alla crisi sfruttando alcune caratteristiche del loro sistema industriale: tra le altre le dimensioni di impresa medio ampie, il contesto più favorevole all’innovazione, l’internazionalizzazione spinta e di sistema. Tre leve, ça va sans dire, interconnesse e che si rafforzano a vicenda. C’è molto da fare dunque sui fattori di crescita aziendale, al netto ovviamente di tutti i freni che derivano dal mercato del lavoro e dal rapporto salari-produttività.

«La struttura produttiva italiana - osserva Banca d’Italia - è sbilanciata verso aziende di piccola dimensione, con minore propensione all’innovazione ed elevati livelli di indebitamento, caratteristiche che ne riducono la capacità di competere». Le unità produttive con meno di 50 addetti rappresentano il 99,4% del totale, esprimono oltre i due terzi dell’occupazione complessiva ma producono solo il 51,9% del valore aggiunto totale. Se consideriamo la sola industria manifatturiera, in termini di valore aggiunto il peso relativo delle grandi imprese sul totale è pari al 35%, a fronte di un’incidenza del 55% nella media Ue (65% in Germania). Ma, sebbene numericamente esigua, la grande industria esprime da sola il 76,7% delle spese per ricerca e sviluppo intra-muros complessiva delle imprese. Non è necessariamente una debolezza di per sé, piuttosto un potenziale enorme da sviluppare dal basso.

Il paradosso italiano del resto sta tutto in un’alta capacità di innovazione delle imprese, misurata in investimenti complessivi nello sviluppo di nuovi prodotti e processi, collegata a una bassa spesa in R&S in senso stretto. Gli effettivi costi della ricerca sono probabilmente sottostimati, da un lato perché la dimensione media ridotta porta spesso ad attività non formalizzate di innovazione e, dall’altro, perché manca un significativo beneficio fiscale collegato a una contabilizzazione separata per le spese. Qui si innesta il problema degli strumenti di policy. L’attuale credito di imposta per gli investimenti in ricerca, se perdurerà il metodo di calcolo limitato agli incrementi di spesa, rischia di rivelarsi un’arma spuntata. Nel prossimo decreto competitività o più probabilmente a fine anno nella legge di stabilità il criterio volumetrico potrebbe essere almeno parzialmente introdotto, una correzione comunque fin troppo tardiva rispetto all’enfasi che si respira nel mondo sulla R&S: durante la crisi economica, segnala uno studio Deloitte, 11 delle 24 principali economie mondiali hanno aumentato i propri incentivi fiscali, anche l’Irlanda è passata da un tax credit incrementale a uno volumetrico.

Se la ricerca sconta in modo molto chiaro il deficit dimensionale, sui mercati esteri il peso delle piccole e medie aziende si fa sentire probabilmente in misura maggiore. Secondo un’elaborazione Ref Ricerche su dati Ocse, la quota di export espressa dalle aziende italiane fino a 49 addetti è pari al 23,7%, contro il 9,4% della Germania, il 20% del Regno Unito, il 22,8% della Spagna, il 19,1% degli Stati Uniti. La competitività delle Pmi, ne deriva, è un elemento chiave della capacità di esportare del nostro sistema produttivo. «Nondimeno - sottolinea Banca d'Italia -la dimensione d’impresa è un fattore fondamentale della capacità di penetrazione commerciale sui mercati esteri», la quale si misura anche se non principalmente «sulla quota di mercato mondiale e sulla distanza dei mercati raggiunti».

La chiave per il salto di qualità - se si guarda anche in questo caso al confronto internazionale - può chiamarsi Exim Bank, una vera banca per il finanziamento diretto delle imprese che esportano. Con questa leva anche i piccoli e medi esportatori potrebbero agganciarsi a progetti più impegnativi e porre le basi di una doppia crescita: all’estero e in casa. Entro l’anno, si riflette nel governo, il progetto, già da lungo tempo in fieri, potrebbe finalmente concretizzarsi intorno al polo Cdp-Sace-Simest. Nel frattempo durante la crisi c’è chi ha fatto affari d’oro nel mondo tramite queste speciali banche: in Germania la Ipex, per fare un esempio, tra il 2011 e il 2013 ha erogato alle imprese tedesche finanziamenti per oltre 10 miliardi di dollari. La norvegese Export Credit nei suoi due primi anni di attività ha erogato 6 miliardi di dollari.