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Cameron: «Con Brexit nuova austerity e pensioni a rischio»

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L’ALLARME DEL PREMIER BRITANNICO

Cameron: «Con Brexit nuova austerity e pensioni a rischio»

David Cameron (Epa)
David Cameron (Epa)

L’uscita dalla Ue potrebbe trascinare la Gran Bretagna nel tunnel di una «nuova austerity». È l’allarme lanciato da David Cameron che, a pochi giorni dal referendum e mentre i sondaggi sembrano indicare uno sbilanciamento dell’elettorato britannico per il “Leave”, ovvero l’uscita dall’Unione, prova a sferrare l’ultimo attacco al fronte pro-Brexit, dato molto avanti nei sondaggi. Con due interventi sui giornali di oggi e intervenendo a un talk show della Bbc il premier prova a fare leva sui temi più cari agli inglesi, come il servizio sanitario nazionale, la casa e le pensioni.

«Brexit creerà un buco nero tra i 20 ei 40 miliardi di sterline nelle nostre finanze e così i nostri ministri dovranno rivedere la riforma delle pensioni», avverte Cameron sul Sunday Telegraph, minacciando il rischio di una «nuova austerity». «Se voterete “Leave” molti dei nostri progetti salteranno», spiega il premier. «Dovremo rinegoziare un trattato con la Ue e potrebbero volerci dieci anni e sarebbero dieci anni persi per la Gran Bretagna. Se voterete “Remain” - è l’appello di Cameron - avrete un paese stabile e certezza per la vostra via. Vi assicuro che se restiamo nell’Ue - promette il premier dalle colonne del quotidiano conservatore - il nostro paese avrà le risorse finanziarie per mantenere i benefit ai pensionati. E possiamo proiettarci verso la creazione di più lavoro, più case e più opportunità per i vostri bambini e i vostri nipoti».

Fautore dell'uscita, il leader dell'Ukip, Nigel Farage, ha invece esortato i britannici ad abbandonare un «progetto che ha fallito». «La gente ne ha abbastanza delle minacce del premier e del suo ministro delle Finanze», ha detto Farage nel corso della stessa trasmissione televisiva.

E anche il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, si è dichiarato «favorevole» alla Brexit perché a suo giudizio l'Unione Europea serve solo come «copertura» alle decisioni politiche del governo britannico. «Il governo di Cameron - ha detto in un'intervista con ITV - utilizza ripetutamente la Ue per coprire le sue decisioni politiche». E, ha aggiunto, «il Regno Unito è negativo per l'Unione Europea, ma anche viceversa perché permette che ci sia una mancanza di responsabilità democratica nel paese». L'attivista australiano, che da oltre due anni si trova nell'ambasciata ecuadoregna a Londra per evitare di essere estradato in Svezia (dove vogliono giudicarlo per violenza sessuale) ha sottolineato che i governi britannici si sono fatti sempre scudo con la legislazione europea per non dare conto ai cittadini delle loro azioni.

Ma con Brexit sarebbe più crescita per il Regno Unito o catastrofe? Nelle decine di studi pubblicati da quando David Cameron lanciò l'idea del referendum sulla Ue le visioni sono spesso diametralmente contrapposte. Su due punti le conclusioni coincidono. Il primo è che per assenza di precedenti nessuno può prevederne con esattezza le conseguenze socio-economiche, il secondo è che - in caso di Brexit - tutto dipenderà dalla capacità di Londra di rinegoziare in fretta gli accordi commerciali.

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A cominciare da quelli con i 27 ex partner della Ue che globalmente sono il primo partner del Regno Unito (oltre il 50% degli scambi) e con i 38 paesi con cui l'Europa ha fatto accordi che valgono anche per Londra (ed altri 12 sono in fase di negoziato). Le stime delle conseguenze economiche in sé variano in funzione dell'orientamento di chi ha proposto lo studio. Così il think tank 'Open Europe', vicino ai Conservatori, propone un “worst case scenario” in cui Londra “non riesce a fare un accordo con il resto della Ue e non ottiene un'agenda di libero commercio” che comporterebbe una riduzione del Pil della Gran Bretagna di -2,2% entro il 2030.

Al contrario, se Downing Street riuscisse a costruire in tempi brevi un accordo di libero commercio (Fta) lanciando contemporaneamente «una deregulation molto ambiziosa della sua economia», l'uscita porterebbe ricchezza: +1,6%.

Sulla possibilità che Londra possa entrare rapidamente nel club dell'Efta (Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein) o che possa ottenere uno status intermedio, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, è stato tranchant. «Dentro è dentro, fuori è fuori», ha detto allo Spiegel. Insomma, niente illusioni di trattamenti di favore: «L'accesso al mercato richiede che il paese rispetti le regole di un club, dal quale però attualmente vuole uscire», ha aggiunto.

Nello studio di Open Europe - firmato da Raoul Ruparel, Stephen Boot e Vincenzo Scarpetta - sono però indicate due condizioni socialmente e politicamente pesanti. Da una parte la sovvenzionatissima agricoltura britannica sarebbe inevitabilmente sottoposta a «distruzione creativa e moltissime fattorie dovrebbero chiudere, non fosse altro perché il 19% di esse già non genera profitti». Dall'altra si osserva che «è inverosimile che l'immigrazione si ridurrebbe significativamente».

Di fatto lo studio sbugiarda così la retorica degli euroscettici, sottolineando «la sfida politica ed economica di trovare politiche alternative per ridurre la pressione sulle finanze pubbliche provocate dall'invecchiamento demografico, quando è l'immigrazione a poter aiutare a spianare il cammino verso la sostenibilità di bilancio».

“Dovremo rinegoziare un trattato con la Ue e potrebbero volerci dieci anni, dieci anni persi per la Gran Bretagna”

David Cameron, premier britannico 

All'altro capo della scala, lo studio della Fondazione Bertelsmann. «In funzione del livello di isolamento commerciale la perdita di Pil pro capite nel Regno Unito varierà tra -0,6% e -3,0% nel 2030, ma tenendo conto degli effetti dinamici che l'integrazione economica ha su investimenti e innovazione, la perdita di Pil rischia di arrivare a -14%», hanno scritto Ulrich Schoof, Thiess Petersen, Rahel Aichele e Gabriel Felbermayer, indicando che chimica, ingegneria meccanica e industria automobilistica britanniche sarebbero le più colpite (con perdite attorno all'11%, ma «anche per i servizi finanziari, le perdite arriverebbero attorno al 5%»).

Un prezzo, ben più modesto, lo pagherebbe anche l'Europa (tra -0,1% e -0,4%) e certamente il costo immediato sarebbe un aumento dei contributi europei per gli altri 27: un conto da +2,503 miliardi l'anno per la Germania, di +1,871 miliardi per la Francia e 1,384 per l'Italia.

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