Il primo ministro Enda Kenny, in una riunione di emergenza convocata ieri in Parlamento, ha definito Brexit «un terremoto politico» la cui posta in gioco, per l'Irlanda, è sempre stata più alta che per gli altri Paesi Ue. Ma l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, insieme alle legittime preoccupazioni per le ricadute economiche e politiche, apre anche alcune interessanti opportunità a Dublino che, con una Londra fuori dal mercato unico europeo, potrebbe vedere crescere il suo appeal presso investitori e aziende.
Le ricadute negative per l’economia
Nei mesi che hanno preceduto il referendum britannico l’establishment politico ed economico irlandese è stato tra i più attivi sostenitori della campagna anti-Brexit. Il perché è presto detto ed era stato sintetizzato a novembre da uno studio del think tank dublinese Esri: i possibili danni al commercio legati alla reintroduzione di barriere tariffarie – l’Esri stimava un taglio di un quinto dell’interscambio tra i due Paesi, oggi pari a circa 50 miliardi all’anno -, le restrizioni alla libera circolazione delle persone, con ripercussioni sul consistente numero di immigrati irlandesi che oggi trovano impiego nel Regno Unito. Alla vigilia del voto britannico uno studio di Standard&Poor’s Global Ratings aveva indicato l’Irlanda come il Paese che avrebbe avuto di più da perdere con Brexit (3,4 in una scala da o a 4). E oggi è arrivato un giudizio di cauta preoccupazione anche da Fitch.
L’agenzia, pur non modificando nell’immediato il rating di Dublino (reduce da un upgrade ad “A” in febbraio grazie alle ottime performance registrate), sottolinea i rischi e le incertezze che il voto britannico prospetta per la crescita irlandese e per i futuri rapporti con l’Irlanda del Nord. Sul fronte commerciale, Fitch evidenzia il peso attuale degli scambi bilaterali (l’export verso la Gran Bretagna è pari al 17% del Pil irlandese), in particolare in alcuni settori: basti pensare che il 49% delle esportazioni agricole di Dublino è diretto a Londra. La gravità dell’impatto di Brexit è naturalmente legata al tipo di accordo commerciale che Londra negozierà con la Ue: tanto maggiore quanto più pesanti saranno le barriere tariffarie reintrodotte. Il prevedibile rallentamento della crescita economica britannica – aggiunge ancora Fitch - potrebbe pesare poi indirettamente anche sull’incremento del Pil di Dublino, favorito in questi anni anche dalla relazione speciale con Londra, che ha marciato a ritmi superiori a quelli dell’Eurozona.
Il nodo politico nordirlandese
L’agenzia di rating accenna poi al possibile indebolimento del processo di pace seguito agli accordi del Venerdì Santo dopo anni di conflitto in Irlanda del Nord.
Undici su diciotto collegi elettorali nordirlandesi (inclusi quelli di confine) hanno votato “Remain” nel referendum del 23 giugno e, subito dopo, si sono levate voci di protesta contro un’uscita dalla Ue non voluta, con gli esponenti del Sinn Fein che chiedevano un referendum per unificare l’Irlanda. In realtà, secondo gli accordi del 1998 che misero fine a 30 anni di guerra civile, un voto per riunire il Paese è vietato, a meno che non lo chieda la maggioranza di entrambe le rappresentanze politiche: quella nazionalista (cattolica) e quella unionista (protestante) . Anche il premier di Dublino, Enda Kenny, ha derubricato una simile possibilità.
L’esito del referendum, tuttavia, fa ipotizzare l’introduzione di controlli lungo la frontiera tra Eire e Irlanda del Nord, un confine che rischia dunque di tornare caldo. Ma soprattutto minaccia di riaccendere animi non ancora del tutto pacificati.
Le opportunità: il business fa rotta verso Dublino?
Martin Shanahan, ad dell’Ida, l’Agenzia irlandese per gli investimenti, lo aveva dichiarato già un mese prima del referendum: il suo obiettivo erano 10mila posti di lavoro nel settore finanziario nei prossimi 4 anni. L’uscita di Londra (e della City) dalla Ue potrebbe dargli una mano. «Negli ultimi due anni – ha spiegato Shanahan in un’intervista alla Reuters dopo il referendum – alcune grandi aziende e società finanziarie hanno dichiarato di prendere in considerazione l’Irlanda». Il presidente di Morgan Stanley, Colm Kelleher, pochi giorni fa ha fatto sapere che Brexit potrebbe spingere l’istituto a spostare il suo quartier generale europeo da Londra a Dublino o Francoforte; Citigroup ha già un ufficio in Irlanda e ha in programma di spostare qui il suo settore retail; Credit Suisse ha aperto quest’anno a Dublino una divisione trading. Altre potrebbero seguire, anche se non è detto che un declino della City avvantaggi la capitale irlandese o l’Europa in genere e non altri hub finanziari globali come Singapore.
Non ci sono solo le banche. Dublino spera di accrescere ulteriormente anche il suo appeal come destinazione delle multinazionali, che già scelgono numerose (sono oltre un migliaio) l’Irlanda come quartier generale grazie a un fisco più che vantaggioso. E nei giorni scorsi l’Associazione avvocati irlandese ha fatto sapere che quest’anno si assiste a un netto incremento delle registrazioni di professionisti britannici in Irlanda: segno che importanti studi legali temono, con Brexit, di perdere il diritto di esercitare nei tribunali comunitari e fanno rotta su Dublino.
Si tratta naturalmente di considerazioni preliminari. Il tempo dirà se davvero l’uscita di Londra, la cui importanza e vicinanza è stata un indubbio fattore di attrattività per Dublino, si trasformerà da handicap in vantaggio per l’Irlanda. Un dato però fa già riflettere: dal referendum del 23 giugno si è registrato un vero e proprio boom di richieste di passaporto irlandese. A guidare la corsa analisti e trader.
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