La Norvegia “Felix”, il modello più spesso evocato per la possibile relazione tra Ue e Gran Bretagna dopo Brexit, è un Paese in cui quella relazione – l'appartenenza di Oslo all'Eea, lo Spazio economico europeo, dal 1994 – subisce costanti critiche, da una parte e dall'altra. Troppo vincolante per gli euroscettici, tuttora la maggioranza della popolazione, che vorrebbero staccare completamente il cordone ombelicale con l'Europa, è considerato invece penalizzante dai fautori di un'adesione alla Ue che consentirebbe alla Norvegia di dire la sua su tante decisioni che comunque la condizionano.
Essere parte dello Spazio economico europeo ha un vantaggio fondamentale: l'appartenenza al mercato unico a cui hanno accesso - oltre ai 28 attuali Stati Ue - Islanda, Liechtenstein e, appunto, Norvegia. Un privilegio che si traduce per Oslo nell'assenza di dazi, fondamentale per un Paese che ha forti legami commerciali con la Ue, di cui è il quinto partner e a cui destina l'80% delle sue esportazioni, soprattutto petrolio, gas naturale e pesce; ma che si porta dietro anche una serie di obblighi. Il primo è il rispetto delle quattro libertà fondamentali della Ue: libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali; il secondo sono i contributi che la Norvegia è tenuta a versare al budget comunitario come contropartita per l'accesso al mercato unico; il terzo l'adeguamento a normative e regolamenti del mercato unico a cui il Paese è tenuto, con l'eccezione rilevante di politica agricola, pesca, commercio estero.
Almeno un paio di questi obblighi stridono con alcuni cavalli di battaglia dei “brexiter”. Si pensi ai risparmi sbandierati nella campagna elettorale che ha preceduto il referendum: secondo un calcolo del think tank Open Europe, la Norvegia fornisce oggi al budget Ue un contributo netto pro capite pari a 107,4 euro all'anno, contro i 139 di Londra. Non molto meno. Oppure lo stop al flusso di immigrati, pure promesso dai sostenitori del Leave: con la libera circolazione delle persone, Oslo conta oggi un flusso migratorio netto in rapporto alla popolazione più alto di quello britannico: 7,8 per mille abitanti contro 4,9 (dati Eurostat 2014).
Quanto agli aspetti normativi, poi, uno studio commissionato dal governo di Oslo nel 2010 al think tank Ulf Sverdrup ha calcolato che il 75% delle leggi europee è stato assimilato dalla legislazione norvegese, sebbene queste cifre siano controverse. Il tutto senza che la Norvegia su queste normative possa dire la sua, visto che – non essendo Stato membro – non ha diritto di veto al Consiglio europeo (quello che fino ad oggi ha avuto la Gran Bretagna), non vota nei consigli dei ministri, non ha eurodeputati, commissari europei o membri della Corte di giustizia.
Ci sono, come accennato, importanti eccezioni in materia di politica agricola e sulla pesca, settori strategici per l'economia norvegese. Il rovescio della medaglia è il fatto che in questo ambito permangono barriere tariffarie, sebbene Ue e Norvegia si siano impegnate a una progressiva liberalizzazione degli scambi, che già si traduce in esenzioni dai dazi per alcuni tipi di pesce norvegese come il merluzzo. Il grosso però rimane escluso: il 70% del pescato secondo un'inchiesta della Bbc, che fissa l'ammontare annuo dei dazi pagati dall'industria del Paese scandinavo in un miliardo di corone, oltre 100 milioni di euro.
Non tutti dunque a Oslo sono soddisfatti dell'appartenenza allo Spazio economico europeo, anche se il malcontento è stato contenuto dalle ottime performance dell'economia nordica, che sembrano però dovute più alle rendite garantite per anni dal petrolio che ai benefici dell'accordo. Per Londra, però, potrebbe essere questa l'unica via d'uscita ragionevole dalla difficile situazione di impasse in cui il referendum l'ha precipitata. È un accordo che già esiste, dunque non va inventato e negoziato, con tutte le incertezze e le lungaggini che ne seguirebbero; ma soprattutto garantirebbe la permanenza nel mercato unico, senza mettere a repentaglio l'attrattività e il primato della City o, più in generale, della Gran Bretagna. Certo, bisognerebbe mandar giù qualche boccone amaro. Ma non si può dire che i norvegesi non avessero messo in guardia i dirimpettai del Mare del Nord. «Se volete guidare l'Europa – disse nel 2013 Nikolai Astrup, deputato norvegese, intervenendo alla Confederazione dell'industria britannica – dovete rimanere in Europa. Se volete essere guidati dall'Europa, unitevi pure alla Norvegia nello Spazio economico europeo».
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