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A Cleveland tutti contro Hillary

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la convention repubblicana

A Cleveland tutti contro Hillary

La Q Arena (Afp)
La Q Arena (Afp)

CLEVELAND - Barack Obama ha reso l'America meno sicura, da nemici esterni come interni. Ma Hillary Clinton, se fosse eletta allo Studio Ovale, farebbe ancora peggio.
Il partito repubblicano oggi guidato verso le elezioni da Donald Trump rimane forse lacerato, ma non ha perso tempo nel mettere nel mirino della sua Convention in Ohio l'avversario diretto, il candidato democratico alla presidenza. La grande sala della Quickens Loans Arena di Cleveland - o come è più semplicemente nota, la Q Arena, con i suoi 20.000 posti a sedere patria dei campioni di basketball dei Cleveland Cavaliers - ha echeggiato ieri sera di una successione di durissimi attacchi a Clinton, solo in parte smorzati dai toni più moderati invece dell'aspirante First Lady Melania Trump.

Lei, come è peraltro tradizione, ha dedicato il discorso alla difesa della personalità del marito (prendendo a prestito una pagina - secondo i critici malamente e letteralmente, con tanto di sospetto plagio - da Michelle Obama otto anni or sono).

La lista degli speaker è stata aperta da Marcus Luttrell, ex fante d'assalto della marina in Afghanistan che ha ispirato il film Lone Survivor. «Tutte le vite contano», ha detto evocando un ritornello rilanciato da altri oratori che vuole denunciare le divisioni razziali del Paese come responsabilità di Obama. Ancora: «Oggi il nemico è qui, nel nostro Paese, chi saprà combattere questa guerra?». Patricia Smith, madre di Sean, uno dei funzionari americani morti nell'attacco terroristico alla sede diplomatica di Bengasi in Libia nel 2012, ha pochi minuti dopo inveito contro la Clinton definendola «personalmente responsabile» della morte del figlio e di menzogne sulle cause dell'assalto raccontate ai familiari.

Bengasi è stato un momento forte dell'offensiva repubblicana. Due altri sopravvissuti a quella tragedia, i veterani dei marines Mark Geist and John Tiegen, hanno ricostruito passo a passo la vicenda. «Abbiamo perso un'opportunità in Libia quando Hillary ha mancato di proteggere il personale sul campo». Ancora: «Abbiamo bisogno di un leader forte e integerrimo e quel leader è Donald Trump».

Il senatore dell'Arkansas Tom Cotton, veterano dell'esercito, ha chiesto un presidente capace di chiamare per nome il nemico. L'ex sindaco di New York Rudy Giuliani, forse il più applaudito della serata, ha assicurato che Trump farà per l'America quello che lui aveva fatto per New York in termini di lotta al crimine. Sul palco sono infine saliti il senatore dell'Alabama Jeff Sessions, uno dei primi sostenitori di Trump nel partito, che ha rimproverato a Obama troppi accordi commerciali. E Michael Flynn, ex capo della Defense Intelligence Unit, che ha apostrofato Clinton come indecisa, ignorante e incompetente. E come altri ha ironizzato sulla cautela dei democratici nel definire il nemico, l'estremismo islamico terrorista.

È toccato anche all'immigrazione illegale salire sul banco degli imputati quando si tratta di sicurezza: hanno parlato i parenti di una guardia di confine, Brian Terry, uccisa da illegali. Mary Ann Mendoza ha raccontato del figlio ammazzato da un clandestino ubriaco e drogato. Lo sceriffo afroamericano di Milwaukee, in un riferimento alle tensioni crescenti tra comunità afroamericana e agenti di polizia, ha dichiarato che “Blue lives matter”, le vite degli agenti in uniforme contano. E simili sono state le dichiarazioni di Darryll Glenn, commissioner afroamericano di El Paso, che ha rincarato la dose accusando Obama di usare una retorica razziale ingiusta. Oggi seconda giornata della Convention, dedicata a un altro tema: Make America Work Again, mettere di nuovo al lavoro l'America.

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