Brexit, banche e sofferenze. Insieme, e non solo per una semplice coincidenza temporale. I temi sono collegati, nella visione della Banca centrale europea. Il voto britannico ha penalizzato le aziende di credito in Borsa, colpendo soprattutto quelle con maggiori difficoltà nel recupero dei crediti. Queste flessioni - ha detto il presidente Mario Draghi - aumentano il costo del capitale, ne riducono la redditività e quindi la capacità di concedere nuovi prestiti. È dunque tutto il meccanismo di trasmissione della politica monetaria a essere sotto stress.
Riassunto così, lo scenario formulato da Draghi non è proprio rassicurante. In realtà la Bce, nel suo comunicato ufficiale, ha voluto soprattutto sottolineare che i mercati finanziari di Eurolandia hanno reagito a Brexit con «incoraggiante resilienza». Le condizioni finanziarie restano quindi espansive e questo «contribuisce a un rafforzamento della creazione del credito». Draghi ha anche sottolineato come le banche siano oggi più solide di qualche tempo fa e come la concessione di crediti risponda oggi alla spinta (positiva) della concorrenza, mentre in passato prevalevano le valutazioni (frenanti) dei rischi.
Le sofferenze, però, pesano, e non solo sulle banche: le difficoltà delle aziende di credito comportano «un’efficacia ritardata della politica monetaria». Occorrerebbe dunque, ha spiegato Draghi riferendosi proprio alla situazione italiana, fare presto ma il problema richiede per sua natura molto tempo per essere risolto. Occorre, ha aggiunto Draghi, un approccio coerente nella vigilanza, un mercato funzionante dove sia possibile acquistare e vendere i crediti in sofferenza, una revisione delle regole esistenti nel settore bancario, ma anche - nell’ambito delle regole esistenti - un paracadute per evitare «fire sales», svendite di questi crediti. Nulla che possa essere fatto in tempi brevi.
Può sorprendere un po’, allora, il fatto che in questa situazione Draghi non abbia voluto dare neanche un piccolo accenno alla possibilità di rendere la politica monetaria più espansiva, di ampliare per esempio il programma di acquisti di titoli di Stato (a parte le indicazioni già note, secondo cui il quantitative easing potrà continuare anche oltre marzo 2017 «se necessario»). L’impatto di Brexit sarà esaminato nei prossimi mesi, quando saranno disponibili anche le nuove proiezioni macroeconomiche - quindi a settembre - e solo allora si valuterà se sarà necessario fare qualcosa in più.
Non si può dire, però, che non sia accaduto nulla. La crescita di Eurolandia non procede più a un ritmo «moderato ma stabile», ma soltanto «moderato», secondo il comunicato della Bce: Brexit è sicuramente un «downside risk», aumenta le probabilità di un rallentamento dell’attività economica; e, ha aggiunto Draghi, dal G-20 del fine settimana dovrebbe emergere il messaggio che la ripresa di Eurolandia continua «a un ritmo più lento». Soprattutto, sembra preoccupare la Bce il fatto che le aspettative di inflazione misurate dal mercato - ma non quelle misurate attraverso sondaggi - sono crollate dopo il voto britannico, per motivi essenzialmente tecnici, ma non hanno poi recuperato come le altre quotazioni. Sono un aspetto da seguire con attenzione.
Non è un caso, allora, che l’euro abbia recuperato terreno, almeno subito dopo la riunione. Gli investitori si aspettavano qualche indicazione in più, che non è arrivata. Oltre a sottolineare il fatto che la Bce è «pronta, determinata e capace» di intervenire e che ha già mostrato di saper «esplorare le flessibilità» offerte dal quantitative easing, Draghi non è voluto andare, malgrado le molte occasioni emerse in conferenza stampa. Con il risultato, sicuramente non voluto, di raffreddare un po’ le aspettative dei mercati.
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