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Il G-20 fa i conti con l’effetto Brexit

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LE INCERTEZZE SULLA CRESCITA

Il G-20 fa i conti con l’effetto Brexit

I timori dei ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche Centrali al G-20 di Shanghai a febbraio sono diventati la dura realtà con la quale, oggi e domani, dovrà fare i conti il G-20 di scena a Chengdu, capitale del Sichuan, ultima tappa preparatoria sulla strada del vertice di settembre ad Hangzhou.
È la Brexit la novità che ha contribuito alla revisione in negativo delle stime di crescita globale del Fondo monetario, è il rompicapo da risolvere rapidamente, uno spettro capace di offuscare il tema del summit, peraltro piuttosto anodino: «Promozione congiunta della crescita; condivisione di responsabilità, gestione e sviluppo».
La realtà impone nuove emergenze, la Brexit spinge sulla stessa Cina, costringendola ad accelerare il passo sul tasso di cambio per allinearlo alle dinamiche del mercato, come ha dichiarato ieri il premier Li Keqiang. Anche Christine Lagarde, managing director dell’Fmi, ha chiesto di «rimuovere il più velocemente possibile» i fattori di incertezza derivanti dalla decisione della Gran Bretagna di lasciare l’Unione Europea. A Chengdu sono attesi anche i “liquidatori” britannici della partecipazione alla Ue; questo weekend, per il nuovo Governo di Londra, sarà indubbiamente un test importante.

A nulla sono servite le previsioni in lieve crescita della Cina, sempre a opera del Fondo Monetario Internazionale, al 6,6% nel 2016, perché il premier Li Keqiang l’ha detto chiaro e tondo, non contate sulla Cina, siamo alle prese con riforme interne molto impegnative, un milione di tagli soltanto per i settori afflitti da overcapacity dell’acciaio e del carbone, e con il rischio volatilità che resta altissimo.
Il rapporto annuale sui rendimenti del fondo sovrano cinese China Investment Corporation diffuso ieri la dice lunga sul cambio di rotta.Cic ha registrato un calo del 3% dei rendimenti nel 2015, gli investimenti all’estero hanno addirittura il segno negativo (-2,96%). Nel 2014 i rendimenti avevano toccato il 5,47%. Dal settembre 2007, anno dell’entrata in azione, il fondo ha mostrato un tasso di rendimento annualizzato del 4,58%. Cic vanta attivi per oltre 810 miliardi di dollari, ha registrato un calo del 17% su base annua dell’utile netto e una perdita dovuta ai meccanismi del cambio di 3,77 miliardi di dollari.

La frenata dell’economia, la bassa inflazione e la bassa produttività e il commercio globale in frenata potranno ancora influire sui rendimenti dell’anno in corso, ma bisogna ricordare il fondo è stato creato per migliorare i rendimenti delle riserve valutarie del Paese, crollate a 3,205 trilioni di dollari di giugno dal tetto di 3.969 miliardi di dollari del mese di agosto del 2014, soprattutto a causa della necessità di stabilizzare i mercati finanziari insidiati dall’instabilità e dal crollo dello yuan. Non solo la Banca centrale ha dovuto attingere alle riserve, ora si scopre anche che il Fondo deputato a valorizzarle è in grave affanno.
La prospettiva che la volatilità aumenti ulteriormente è stata delineata chiaramente da Li Keqiang davanti a un consesso formato dai big delle istituzioni finanziarie, da Christine Lagarde, a Jim Yong-kim presidente della Banca mondiale, a Roberto Azevedo il presidente del Wto sempre chiamato in causa in questi giorni di decisioni importanti per il commercio internazionale, al presidente del Financial Stability Board, Mark Carney, ai rappresentanti di Ocse e Ilo.

Ma i tempi sono cambiati, i vertici cinesi preferiscono archiviare la baldanzosità per ricorrere alla vecchia arma del Paese in via di sviluppo, con l’aggiunta che la Cina, da sola, non può assumersi il carico di responsabilità della ripresa a livello globale. Guerre valutarie o commerciali non sono nella traiettoria di Pechino che, tra l’altro in questi giorni ha dovuto prendere atto di una nuova procedura di infrazione – la terza - aperta dalla Ue presso il Wto per i sussidi all’export di almeno 11 materie prime.

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