
Da ormai 15 anni, il pendolo della Thailandia oscilla tra populismo e autoritarismo. Alla conquista del potere attraverso regolari elezioni da parte del tycoon Thaksin Shinawatra e dei suoi alleati, risponde a suon di colpi di Stato il blocco militare-monarchico, saldato con l’alta borghesia degli affari. Fu un golpe a interrompere l’esperienza politica di Thaksin nel 2006. È stato un golpe, il 12° dal 1932, a mettere fuori gioco la sorella Yingluck nel maggio del 2014. Senza che mai, dal 2001 in avanti, i partiti populisti, prima guidati poi ispirati da Shinawatra, abbiano perso una singola tornata elettorale.
Nel frattempo, decine di politici e interi partiti a lui legati sono stati messi al bando. Lo stesso Thaksin è in esilio volontario, inseguito da accuse di corruzione. La sorella è a sua volta accusata di abuso di potere e frode. A reggere la seconda economia del Sud-Est asiatico è così una dittatura relativamente soft, ma sempre più intollerante della libertà di espressione e ormai invisa anche ai movimenti politici che due anni fa la invocarono, per liberarsi una volta per tutte degli “imbattibili” Shinawatra.
E con il referendum di domenica scorsa, che ha approvato con il 62% di sì la Costituzione scritta dai militari, il pendolo si sposta ancora di più verso l’autoritarismo. Il voto si è tenuto in un clima di libertà “condizionata”, con decine di arresti tra i sostenitori del no e l’informazione monopolizzata dal Governo. La nuova Carta rinsalda la presa dei militari sul Paese e mette sotto tutela tutti i partiti, considerati inguaribilmente corrotti.
Dopo due anni di sospensione delle regole democratiche, all’alba della nottata di attentati che l’hanno scossa, la Thailandia si risveglia però con più problemi di prima. Salito al potere dopo la rimozione di Yingluck, l’ormai ex-generale Prayuth Chan-ocha aveva assicurato che sarebbe rimasto al Governo esclusivamente per il “breve” tempo necessario a restituire crescita e stabilità al Paese. Di nuove elezioni non si parlerà prima della fine del 2017 e la crescita del 2015 si è fermata al 2,8%, in ripresa rispetto allo 0,8% dell’anno prima, ma lontana dai risultati, in alcuni casi nemmeno brillanti, dei vicini: il 6,7% del Vietnam, il 5% della Malesia, il 4,8% dell’Indonesia.
Anche la promessa della stabilità e dell’ordine sembra ormai in frantumi. Già un anno fa, un attentato nel cuore della capitale aveva assestato un grave colpo: con le sue venti vittime, resta uno degli episodi più gravi nella storia di un Paese assuefatto ai colpi di Stato, ma non alla violenza su vasta scala. I sei mesi di disordini che portarono al golpe del 2014 fecero in tutto 30 morti. L’attentato del 2015 fu fatto risalire agli estremisti uighuri, che, nella loro lotta senza quartiere contro Pechino, avrebbero voluto colpire i turisti cinesi a Bangkok.
Questa volta, le autorità parlano di «sabotaggio locale», rifiutano il preoccupante termine terrorismo, internazionale o interno che sia, e puntano il dito contro gli oppositori del regime, con le velate dichiarazioni di Prayuth. Del resto, nei giorni a cavallo del referendum, nel Sud del Paese si sono verificati oltre trenta attentati “minori”.
Le premesse ideali per un nuovo giro di vite in un Paese che resta destabilizzato dalla spaccatura tra i sostenitori di Thaksin e i suoi nemici e dalla violenza separatista delle province a maggioranza musulmana.
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