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Petrolio, fondo sovrano e beni di Gheddafi. In Libia un tesoro…

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TRA PETROLIO, FONDO SOVRANO E BENI DI GHEDDAFI

Petrolio, fondo sovrano e beni di Gheddafi. In Libia un tesoro potenziale da 160 miliardi

  • – di Roberto Bongiorni
Un operaio al lavoro nell’impianto petrolifero di Zueitina, ovest di Bengasi (Reuters)
Un operaio al lavoro nell’impianto petrolifero di Zueitina, ovest di Bengasi (Reuters)

Cinque anni e mezzo fa, poco prima della rivoluzione, la Libia si confermava il Paese africano con il Pil pro capite più alto di tutto il Continente (anche nel 2012 era di 13.200 dollari). Certo, si trattava di una media; 43 anni di dittatura si erano succhiati buona parte delle immense entrate energetiche, distribuendo prebende alle tribù che si mostravano compiacenti al regime. Per conto suo il Rais ogni anno metteva da parte ingenti somme destinate al suo immenso tesoro personale.

Ma i libici stavano tutto sommato bene, grazie anche ad un esercito di immigrati per svolgere mansioni ritenute umilianti. Un milione e seicentomila barili al giorno di petrolio e gli introiti dell’export di gas garantivano una vita confortevole ad una popolazione di soli cinque milioni. La Libia di oggi non è più la Libia di allora. Sei anni dopo la rivoluzione, il tracollo dell’estrazione petrolifera (meno di 1/4 rispetto al 2010) ha provocato sacche di miseria; 1/5 della popolazione vive sotto la soglia di povertà. La ripresa non sarà facile, né immediata. Nel 2014 nessun paese al mondo ha accusato un tracollo del Pil di questa portata: -24 per cento. E se nel 2015 la recessione è stata “solo” del 10,2% anche nel 2016 la contrazione si appresta a sfondare le due cifre posizionandosi tra le peggiori al mondo. Per un paese che vanta le prime riserve di greggio africane, e grandi giacimenti di gas, sembra un paradosso.

Eppure prima della rivolta i surplus derivanti da greggio e gas erano tali da costruire grandi riserve monetarie presso la Banca centrale e creare, nel 2006, un fondo sovrano, il più ricco di tutta l’Africa; la Libyan investment authority (Lia), dove convogliare in seguito i fondi investiti all’estero. Dopo la morte di Gheddafi, la Banca Centrale della Libia, che si era mantenuta neutrale, ha attinto dalle sue riserve in valuta pregiata per finanziare il budget, in crescente deficit, dei due Governi rivali. Secondo le voce più affidabili, nel 2011 le riserve ammontavano ad 140 miliardi di dollari, oggi si sarebbero più che dimezzate a 60 miliardi. Buona parte di questi assests non sarebbero liquidabili nell’immediato, e comunque farlo comporterebbe ingenti perdite.

In attesa che l’industria petrolifera si riprenda, cosa che non accadrà domani, occorre trovare fondi per fare andare avanti uno Stato sull’orlo della bancarotta. Tutti si fanno la stessa domanda: dove è finito il tesoro di Gheddafi? E in molti vogliono partecipare alla sua spartizione. Sull’immensa ricchezza accumulata dal dittatore sono corse molte voci. C’è un tesoro di cui si conosce l’esistenza. Ed un altro nascosto, forse irrintracciabile. Almeno l’85% del patrimonio della Lia, azionista di 550 società sparse per il mondo, sarebbe ancora congelato. La Lia sarebbe ancora presente in diverse società italiane. Alcune controllate attraverso la Libyan Foreign Investment Company(Lafico). Fino a qualche anno fa si riteneva che la Lia avesse una partecipazione pari al 4% in Unicredit e e contasse circa 500 milioni di euro in azioni di Mediobanca. Oltre a una quota di circa l’1% di Eni, e di quasi il 2% nell’ex Finmeccanica e in Fiat-Fca. Tutti questi fondi sarebbero comunque ancora congelati su richiesta della Corte penale internazionale dell’Aja, che ha demandato la questione alla giurisdizione italiana. La finalità era evidente, ed erano stati gli stessi governi libici in principio a richiederlo:  impedire che qualcuno mettesse le mani sul fondo sovrano per i suoi interessi.

Fino all’inizio dell’anno, la Libia era spaccata in due, con un Governo ombra insediatosi a Tripoli nell’agosto del 2014 e vicino ai fratelli musulmani, ed uno riconosciuto dal mondo, in Cirenaica, a Tobruk. Entrambi i Governi avevano piazzato un loro uomo a capo della Lia. Tripoli aveva posto Abdulmagid Breish, uomo di finanza, una carriera trascorsa tra banche arabe e istituzioni libiche fra cui la Lia. Tobruk aveva scelto Hassan Bouhadi, ingegnere che ha lavorato per molte multinazionali occidentali. Una situazione caotica. Che sembra semplificarsi, solo in apparenza, a fine marzo, quando si insedia a Tripoli il Governo di accordo nazionale, guidato dal Fayez Saraj. Un esecutivo voluto e sostenuto dalla Comunità internazioale. Sembra lui l’uomo che potrà finalmente gestire il patrimonio della Lia. Ma i fondi, per ora, restano congelati.

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Nel mentre la Lia ha intentato due azioni legali contro due colossi bancari internazionali. Goldman Sachs e Societé Générale (che hanno respinto le contestazioni), rei, ai suoi occhi, di aver gestito in modo improprio i fondi durante il periodo di Gheddafi. Ad occuparsi della causa contro Goldman è l’Alta corte londinese. Tripoli attende con il fiato sospeso. Lo sblocco e la gestione della Lia e il risacimento chiesto a Goldman (circa un miliardo di dollari), paiono alle fasi conclusive. Ma c’è un tesoro di cui si sa poco o nulla e su cui si specula invece moltissimo. Quello personale di Gheddafi. Su un dato sembrano tutti d’accordo; è immenso. Secondo il governo libico, ammonterebbe a circa 80 miliardi di dollari (altri parlano di oltre 100 miliardi), sparsi per il mondo attraverso un reticolo di fiduciarie e di presta nomi compiacenti. Presumendo la fine, prima di cadere Gheddafi avrebbe nascosto lingotti d’oro e diamanti per miliardi di dollari (soprattutto in Africa). Ma il tesoro del Rais rischia di restare sepolto insieme al dittatore che lo ha accumulato.

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