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Mosca, 19 agosto 1991: fallisce il golpe contro Gorbaciov, ma per…

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VENTICINQUE ANNI FA

Mosca, 19 agosto 1991: fallisce il golpe contro Gorbaciov, ma per la Russia è la fine del comunismo

Mikhail Gorbaciov. Foto Afp
Mikhail Gorbaciov. Foto Afp

Con i giornali radio del mattino, il 19 agosto 1991 (era un lunedì), gli italiani ascoltano increduli la notizia del colpo di Stato a Mosca. L'agenzia di stampa Tass informa che il presidente Mikhail Gorbaciov, in vacanza in Crimea, è sostituito dal suo vice Ghennadi Janaev e che un Comitato di salute pubblica ha assunto i pieni poteri nell'Urss. Fra gli otto membri spiccano i nomi del primo ministro Valentin Pavlov, del capo del Kgb Vladimir Krjuchkov e dei ministri degli Interni Boris Pugo e della Difesa Dimitrij Jarov.

I carri armati presidiano le strade, in Occidente crollano le Borse e si teme un bagno di sangue nell'Unione Sovietica, una potenza nucleare. Nella tarda serata dello stesso 19 agosto, da Washington, il presidente degli Stati Uniti George Bush (senior) telefona al Cremlino e chiede di parlare con Gorbaciov, ma si sente rispondere che, se vuole, può parlare con Janaev; negli Stati Uniti buttano giù la cornetta: così racconta Demetrio Volcic, storico corrispondente della Rai dalla capitale sovietica, nel suo libro “Mosca-I giorni della fine” (Nuova Eri-Mondadori, 1992). L'ineffabile presidente golpista Janaev è descritto da Volcic poche pagine più avanti (quando il colpo di Stato si avvia al fallimento): «Sdraiato su un divano, senza giacca, la cravatta slacciata (…) e ha già vuotato una fila di bottiglie di vodka».

Eltsin su un carro armato con il megafono
Nel frattempo il presidente della Repubblica russa Boris Eltsin - eletto due mesi prima a suffragio popolare - chiama i cittadini alla disobbedienza civile e allo sciopero generale, denuncia il «colpo di Stato di destra, reazionario e anticostituzionale» e presidia la Casa Bianca di Mosca, l'edificio del Parlamento russo, sotto l'assedio dei soldati, molti dei quali si schierano però con lui. Durante la manifestazione, Eltsin sale in piedi su un carro armato e, con un megafono, condanna la Giunta golpista. Nella notte fra il 21 e il 22 agosto, Gorbaciov torna in aereo a Mosca, i mezzi blindati si ritirano, il golpe è fallito. Sette membri del Comitato vengono arrestati, Pugo si suicida.

Ma, diversamente dalle intenzioni sia dei golpisti che di Gorbaciov, quei pochi giorni dell'agosto 1991 provocheranno un risultato inimmaginabile fino a poco tempo prima: la dissoluzione dell'Urss e del sistema socialista in Europa, presenze costanti nella nostra vita dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi (per il comunismo in Russia, dalla Rivoluzione d'Ottobre del 1917).

Gorbaciov, di rientro dalla Crimea (dov'era agli arresti domiciliari), indossa una giacca a vento su un pullover: «Scende dalla scaletta stanco e invecchiato – annota Volcic – dietro di lui, la moglie Raissa abbraccia la nipotina Xenia avvolta in una coperta a scacchi. Un gruppo di naufraghi». Venticinque anni fa internet non c'era e gli italiani guardano gli eventi di Mosca dagli schermi della Rai, che fa il pieno di ascolti: tra l'82 e l'84% dell'audience totale durante i telegiornali.

Davanti al Parlamento russo, il 23 agosto, Gorbaciov ringrazia Eltsin per il suo intervento in difesa dello Stato, denuncia le responsabilità dei golpisti, ma viene duramente contestato dall'uditorio, che gli rinfaccia di avere dato lui il potere a chi ha poi cercato di eliminarlo politicamente. «Eltsin – citiamo ancora Volcic – ha sulla faccia un sorriso sardonico, sovrasta Gorbaciov anche fisicamente»: puntando il dito verso di lui, prima gli consegna un fascio di carte e poi gli intima di leggerle davanti alle telecamere.

La bandiera rossa ammainata la sera di Natale
In pochi giorni si sgretolano l'Urss e il comunismo: le tre repubbliche del Baltico – Estonia, Lettonia e Lituania – proclamano l'indipendenza, che il 27 agosto è riconosciuta dalla Comunità europea; anche a Kiev il Parlamento ucraino vota l'indipendenza e indice il referendum popolare per il 1° dicembre; a fine mese seguiranno le Repubbliche sovietiche dell'Asia centrale. Gorbaciov il 24 agosto si dimette da segretario generale del Partito comunista dell'Unione Sovietica.

Formalmente resta presidente della Repubblica fino alla sera di Natale, quando annuncia le sue dimissioni in un breve discorso in tv. La bandiera rossa con falce e martello viene ammainata dal più alto pennone del Cremlino e sostituita con quella bianco-rosso-blu della Federazione russa (rispolverata dal tempo degli zar). Il 26 dicembre 1991 si riunisce per l'ultima volta il Soviet Supremo, che ratifica lo scioglimento dell'Urss.

Giusto un anno è passato da quando Gorbaciov aveva raggiunto l'apice dei riconoscimenti: confermato segretario del Pcus e presidente della Repubblica con ampi poteri (dopo la riforma costituzionale del 1989), insignito del Premio Nobel «per il suo ruolo di primo piano nel processo di pace che oggi caratterizza parti importanti della comunità internazionale». Pareva vicina la prospettiva di un mondo sempre più cooperativo e pacifico, grazie al trionfo dei principi della democrazia e del mercato: quasi “la fine della storia” vagheggiata dal politologo americano Francis Fukuyama nel suo famoso libro “The End of History and the Last Man”.

Invece la situazione interna nell'Urss andava facendosi sempre più difficile e cresceva il malcontento: le riforme proposte da Gorbaciov si scontrarono con le resistenze burocratiche e l'opposizione dei poteri forti, facendo precipitare il paese in una disastrosa crisi economica e riacutizzando le spinte indipendentistiche e i conflitti etnici fino ad allora repressi. Il compito per Gorbaciov era davvero immane: mettere d'accordo il comunismo e il mercato, il monopolio del potere dal parte del Pcus e il pluralismo.

Nel luglio 1991 Gorbaciov partecipa al summit del paesi più industrializzati a Londra per chiedere un sostegno al suo piano di riforme, ma la maggioranza del G7 si esprime contro la concessione dei sostanziosi crediti, da lui richiesti per affrontare la crisi economica e mantenere il controllo della situazione politica interna (nonostante le buone intenzioni dell'Italia di Andreotti, della Francia di Mitterrand e anche della Germania di Kohl). «In Occidente forze decisive guardavano già al dopo-Gorbaciov», chiosa Francesco Benvenuti nel suo libro “La Russia dopo l'Urss” (Carocci, 2007).

L'eredità politica di Gorbaciov
Il 2 marzo scorso Gorbaciov ha compiuto 85 anni: è nato nel 1931 da una famiglia di contadini a Privolnoye, un villaggio sulle propaggini settentrionali del Caucaso. Oggi si appoggia sul bastone, ma è sempre lucido di mente. Il presidente russo Vladimir Putin, per il compleanno, gli ha inviato gli auguri con un messaggio pubblicato sul sito del Cremlino: «Sei conosciuto come una figura eccezionale che ha lasciato il segno, come statista e come persona pubblica». La moglie Raissa è morta nel 1999 di leucemia, all'età di 67 anni.

Laureato in legge e in economia agraria, Gorbaciov si iscrive al Partito comunista nel 1952, viene eletto deputato al Soviet Supremo nel 1970, entra nel Comitato centrale del Pcus l'anno dopo, quindi nella Segreteria nel 1978, per arrivare nel 1980 a far parte del Politburo, il “sancta sanctorum” del potere in Urss. Con lui per la prima volta sale al vertice del Pcus il rappresentante di una generazione che non ha fatto la Rivoluzione d'Ottobre, non ha vissuto gli anni bui dello stalinismo e non ha combattuto nella Seconda guerra mondiale. L'11 marzo 1985, dopo il grigiore degli ultimi anni dell'era brezneviana e i brevi interregni di Jurij Andropov e di Konstantin Cernenko, diventa segretario generale del Pcus all'età di 54 anni, un'assoluta novità nella gerontocrazia dell'Unione Sovietica.

“Perestrojka” e “glasnost” al Cremlino
Dal Cremlino la nomina di Gorbaciov viene annunciata poche ore dopo la scomparsa di Cernenko, segno evidente che la successione era stata predisposta per tempo. In Italia nelle redazioni dei giornali e nei dibattiti in tv si interpellano i corrispondenti da Mosca e i “cremlinologi” per capire se le due parole chiave del vocabolario di Mikhail Gorbaciov – “perestrojka” (ristrutturazione economica) e “glasnost” (trasparenza politica) – porteranno davvero a un cambiamento profondo dell'Unione Sovietica.

A differenza dei suoi predecessori, Gorbaciov non assume la presidenza del Soviet Supremo (carica equivalente a quella di capo dello Stato), ma vi designa il vecchio Andrej Gromyko, ministro degli Esteri dell'Urss fin dal 1957. A guidare la diplomazia chiama invece un uomo fidato, il georgiano Edvard Shevardnadze. I due incontri di Gorbaciov con il presidente americano Ronald Reagan – a Ginevra nel novembre 1985 e a Reykjavik nell'ottobre 1986 – fanno ben capire quanto i nuovi leader moscoviti siano sinceri nel volere la distensione e il disarmo, meritando la fiducia dell'Occidente.

La fine della Guerra fredda
Usa e Urss avviano un negoziato, concluso a Washington nel dicembre 1987, per l'eliminazione dall'Europa dei missili di breve e media gittata. Tra il 1988 e il 1989 Gorbaciov ritira le truppe dall'Afghanistan (invaso dall'Armata Rossa quasi dieci anni prima) e convince Fidel Castro ad abbandonare l'Angola. La politica di non intervento archivia la “dottrina Breznev”, permettendo ai governi dell'Est europeo di essere artefici del proprio destino politico. Le elezioni in Polonia sono vinte dai cattolici di Solidarnosc e l'elettricista di Danzica Lech Walesa prende il posto del generale Jaruzelski alla presidenza della Repubblica.

Nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, cade il muro di Berlino: uno di quegli eventi che “tagliano” il corso della storia. In quei giorni, perfino i governanti del mondo non immaginavano la fine del Muro: con la sua proverbiale ironia, Giulio Andreotti una volta disse di amare talmente la Germania da volerne due. Invece la riunificazione tedesca – il 3 ottobre 1990 - suggellerà il superamento della divisione del Vecchio continente in due blocchi contrapposti. Nei vertici di Malta (dicembre 1989) e di Mosca (luglio 1991), il successore di Reagan, George Bush (senior) e Gorbaciov fanno un altro passo avanti verso il disarmo nucleare - dal trattato Salt al trattato Start I - che prevede non solo la limitazione, ma anche la riduzione di un terzo delle testate nucleari delle due parti. La Guerra fredda è finita.

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