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La guerra ai Narcos di Duterte insanguina le Filippine

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LA «CROCIATA» DEL NEO-PRESIDENTE

La guerra ai Narcos di Duterte insanguina le Filippine

Una ragazza sorregge il cadavere del fidanzato, ucciso in strada. Vicino al corpo un cartello con la scritta: «Sono uno spacciatore»
Una ragazza sorregge il cadavere del fidanzato, ucciso in strada. Vicino al corpo un cartello con la scritta: «Sono uno spacciatore»

Rodrigo “The Punisher” Duterte lo aveva gridato in campagna elettorale: «Tutti voi, spacciatori e trafficanti, voi figli di puttana, vi ucciderò tutti». Nessun giro di parole, dritto al bersaglio come una fucilata del Punitore, il personaggio dei fumetti al quale deve il soprannome: un giustiziere che non fa prigionieri e uccide tutti i “cattivi” che incontra. Dalla fiction alla realtà, per le strade delle Filippine di “punitori” sembrano essercene interi squadroni. E il numero dei morti supera la più macabra fantasia.

Un mese dopo aver vinto le elezioni presidenziali (il 9 maggio), Duterte ha lanciato una spietata campagna contro spacciatori e tossicodipendenti, promettendo, tra le altre cose, medaglie e ricompense a chi elimina pusher e trafficanti. Da allora, in sette settimane, sono state fatte fuori 1.900 persone, a una media di quasi 40 al giorno: cifre da guerra civile che non si vedevano dai tempi del regime di Marcos. Nei sei mesi precedenti, la polizia aveva ucciso “solo” 39 sospetti.

Il soprannome di The Punisher, come quello di “Dirty Harry” (l’ispettore Callahan), Duterte se l’era già guadagnato durante i suoi oltre 20 anni da sindaco a Davao (Mindanao), per i metodi a dir poco spicci usati contro la criminalità e che gli erano costati l’accusa di aver utilizzato squadre della morte. Lo stesso Duterte si è vantato di aver eliminato 1.700 criminali, da semplice sindaco. Ora, da presidente, ha dalla sua le forze dell’ordine, alle quali ha promesso risorse e immunità di fatto.

Il bilancio dell’offensiva lo ha presentato, il 22 agosto, il suo fedelissimo capo della polizia, Ronald dela Rosa, chiamato a giustificare la mattanza «senza precedenti» davanti a una commissione del Senato. Con ostentato orgoglio, dela Rosa, ha illustrato i risultati della campagna con tanto di presentazione in power point e si è vantato di aver già messo in ginocchio il crimine: a luglio i reati gravi sono diminuiti di quasi un terzo rispetto a un anno prima. Gli omicidi, però, sono aumentati del 56%. Dal 1° luglio, quando l’operazione è scattata, la polizia ha ucciso 716 persone, secondo il rapporto di dela Rosa. Le altre 1.160 sarebbero state assassinate da «vigilantes» o sarebbero cadute nella guerra tra cartelli. All’uscita dal Senato, dela Rosa è stato circondato da un gruppo esultante di persone che gli chiedevano un selfie.

La polizia non ha ufficialmente l’ordine di sparare a vista, ma poco ci manca: «Non uccidete se non siete in pericolo di morte, ma - ha detto qualche giorno fa Duterte in un discorso agli agenti - se la resistenza è violenta, e per ciò minaccia la vostra vita, sparate e sparate per uccidere». E ancora: «Se per fare il vostro lavoro dovrete uccidere mille persone, io vi proteggerò».

Oltre cento cadaveri sono stati trovati incaprettati, legati con nastro adesivo o con addosso cartelli con la scritta: «Sono un pusher, non imitatemi». Lunedì scorso, un sospetto boss della droga, Melvin Odicta, è stato freddato in pubblico insieme alla moglie da un killer non identificato. Pochi giorni prima, Odicta era stato interrogato dalla polizia.

Secondo i media locali, alcuni degli omicidi sarebbero stati commessi da agenti corrotti, nel tentativo di liberarsi di complici diventati ormai troppo pericolosi. Duterte ha infatti promesso una ricompensa di 42mila dollari a chi fornisce informazioni in grado di incastrare poliziotti venduti. Sono circa 300 quelli sospettati di essere “sporchi”: alcuni intascano bustarelle per chiudere gli occhi, altri rivendono la droga sequestrata nei raid.

Human right watch ha condannato l’operazione e ha accusato Duterte di «incitare alla violenza e di distruggere lo Stato di diritto». Anche Stati Uniti, Unione europea, Australia e Nazioni Unite si sono fatti sentire. «Fanculo», è stata la replica di Duterte, che ha anche minacciato di ritirare le Filippine dall’Onu.

Per sfuggire al massacro, ben 700mila tossicodipendenti e piccoli spacciatori si sono consegnati alle autorità, più di quanti centri di recupero e carceri possano ospitarne. Secondo Duterte, sarebbero 3,7 milioni i “drogati” di shabu, la metanfetamina più diffusa nel Paese (31 dollari al grammo). Cifra probabilmente esagerata: i dati ufficiali si fermano a 1,3 milioni di tossicodipendenti e le Filippine non spiccano nelle statistiche internazionali, né per consumo di droga, né per criminalità.

Ma l’uomo forte di Manila non va per il sottile: dalle strade ai palazzi della politica, conduce la sua guerra con identica spregiudicatezza, fino a esibisce in televisione liste di personaggi pubblici “coinvolti” nel narcotraffico. Giudici, funzionari pubblici, parlamentari, ce n’è per tutti, soprattutto per chi critica i suoi metodi. Insieme alla guerra alla droga, Duterte, cavalca infatti un’aggressiva campagna contro la corruzione, altro tema di sicuro impatto nell’opinione pubblica. La fondatezza, spesso dubbia, delle accuse poco importa, finché i filippini vedono l’ex sindaco di Davao come l’antidoto al male che da sempre affligge il Paese.

Del resto, il pugno duro ha sempre pagato per la carriera politica di Duterte. E continua a farlo: secondo un sondaggio di Pulse Asia, il 91% dei filippini è con lui.

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