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Libia e petrolio, che cosa cambia dopo la mossa a sorpresa di Haftar

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L’analisi

Libia e petrolio, che cosa cambia dopo la mossa a sorpresa di Haftar

Il terminal petrolifero di  al-Sidra dopo i combattimenti dello scorso gennaio (Afp)
Il terminal petrolifero di al-Sidra dopo i combattimenti dello scorso gennaio (Afp)

Ora che la tormentata Libia rischia di veder aprirsi un altro fronte di guerra, la Comunità internazionale, che ha finora gestito la crisi maldestramente e in modo non del tutto trasparente, farà il possibile per riportare i due potenziali belligeranti al tavolo dei negoziati. Eppure le premesse per un confronto militare tra il potente generale Khalifa Haftar - e con lui il Governo parallelo che controlla la Cirenaica - e il Governo di accordo nazionale di Tripoli (Gna) , guidato dal neo premier Fayyez Sarraj - e sostenuto dalla Comunità internazionale - c'erano già da tempo.

L'ultimo significativo precedente risale alla fine di luglio. Allora il Governo di Sarraj annunciò un accordo con la Guardia delle strutture petrolifere libiche (Pfg), una milizia guidata dal leader Ibrahim Jidran, affinché fossero riaperti i terminali petroliferi di al-Sidra, Ras Lanuf e Zueitina. Chiusi da gennaio, quando i serbatoi furono incendiati dall'Isis, Ras Lanuf e Sidra hanno una capacità rispettivamente di 200mila e di 500mila barili al giorno (bg).

Sull'onda dell'euforia, e troppo ingenuamente, i vertici della compagnia petrolifera di Stato (Noc) avevano subito annunciato i nuovi obiettivi produttivi; riportare la produzione petrolifera sopra i 900mila barili al giorno già entro fine anno. Vale a dire quasi triplicarla rispetto ai 360mila barili al giorno estratti in luglio.

Avevano per così dire fatto i costi senza l'oste. Ignorando le minacce del Governo parallelo di Baida, cittadina della Libia orientale a metà strada fra Bengasi e Tobruk. Il suo portavoce, Hatim al-Arabi, aveva subito lanciato un duro avvertimento, a cui tuttavia pochi diedero peso: «Il petrolio libico si può comprare o vendere solo tramite la compagnia nazionale National Oil Company (ormai sciolta, ndr) con sede a Bengasi». Aggiungendo: «Non è consentito ad alcuna petroliera di entrare e caricare greggio nei terminal di Ras Lanuf e Sidra in quanto sono in mano a forze fuori legge». Agli occhi di Hatim al-Arabi i fuorilegge altro non erano che i ribelli della Guardia delle strutture petrolifere libiche (Pfg) di Jidran. La minaccia includeva anche il terminale di Zueitina, il più vicino a Bengasi.

Il Governo di Baida, e il suo Parlamento insediatosi nell'agosto del 2014 a Tobruk, non hanno mai nascosto la loro ostilità al Governo di Unità nazionale di Tripoli, considerato da loro un Esecutivo in cui militano personaggi islamici non graditi. Sono ormai nove mesi che il Parlamento di Tobruk si ostina a non accordare la fiducia a Tripoli, passaggio preliminare al suo scioglimento ufficiale.

In questo clima incandescente, le tensioni tra i ribelli che controllavano il terminale di Zuetina e l'armata del generale Haftar, erano scoppiate pochi giorni dopo, in agosto. Tanto che quella volta i governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti, con una presa di posizione inequivocabile e forte, avevano espresso in un comunicato «l'incondizionato sostegno al governo di Tripoli, a cui (il gruppo) riconosce in via esclusiva il diritto di gestire l'industria petrolifera».

Ora c'è da chiedersi cosa otterrà Haftar con la sua mossa a sorpresa. Davvero molto difficile, quasi impensabile, che riesca ad esportare il petrolio di contrabbando. Incontrerebbe subito la marina militare di diversi Paesi stranieri pronta a bloccarlo. Come già avvenuto quest'anno in almeno un'occasione.
Puntando alla Mezzaluna petrolifera della Libia, e controllando i maggiori terminal, il generale sostenuto dall'Egitto, e guardato con una certa simpatia anche dalla Francia (che proprio in Cirenaica ha schierato le sue forze speciali) ha acquisito un'arma, forse la più dissuasiva, per far sentire la propria voce e rivendicare anche lui un ruolo di primo piano nel futuro assetto politico della Libia. Un ruolo che gli era stato negato in dicembre quando le fazioni rivali, sotto l'egida dell'Onu, avevano posto le basi per il Governo di Unità giungendo ad un accordo.

L'attuale premier Sarraj si trova ora in grandi difficoltà. Ha minacciato di riprendere i terminali con la forza. Ma è difficile che lo faccia. Anche perché la milizia di Misurata, la più forte tra i gruppi armati alleati del suo Governo, è provata dalla campagna militare contro l'Isis a Sirte. E soprattutto perché non conviene a nessuno aprire in Libia un nuovo fronte di guerra dalle conseguenze imprevedibili.

Per un paese che di petrolio vive - ancora oggi il 96% delle entrate governative e il 95% dell'export arriva proprio dalle vendite di greggio - l'emorragia energetica, unita alla caduta dei prezzi internazionali del barile, ha messo in ginocchio l'economia. Il Gna non ce la fa a colmare i crescenti deficit di bilancio con le attuali entrate petrolifere. E gli assets della Banca centrale, dimezzati ma ancora ancora significativi (circa 60 miliardi di dollari) non sono subito liquidabili. Per motivi tecnici, ma anche per convenienza.

Il settore petrolifero deve essere riunificato. Quanto prima. Ne sono consapevoli tutti. Anche Abdullah al-Thani, il premier del Governo parallelo della Cirenaica, lo aveva fatto intendere, ma le sue condizioni era suonate subito inaccettabili per il Governo di Tripoli: spostare i quartieri generali della Noc a Bengasi e allocare il 40% delle entrate petrolifere alla Cirenaica.

Siamo così davanti a una nuova situazione di stallo. In cui la vittima è l'industria petrolifera, ancora bloccata. Se davanti all'ostinazione del Parlamento di Tobruk a non riconoscere il neo Governo, l'Occidente lo ha in pratica sconfessato, le autorità della Cirenaica si stanno comunque comportando come se nulla fosse accaduto. E continuano a riporre la loro fiducia nel generale Haftar, nominato nel 2015 capo nella grande milizia che Tobruk ama definire esercito libico nazionale.

C'è da domandarsi perché Haftar sia ancora così forte. Per una serie di ragioni. Per la sua abilità nel comprarsi l'alleanza di tribù influenti in un Paese dove i clan hanno ancora molto potere (ieri le milizie di Jidran si sono ritirate dai terminal senza opporre resistenza alcuna). Ma soprattutto perché è riuscito a ottenere il sostegno di alcuni importanti Paesi stranieri: l'Egitto (per quanto il Cairo di recente abbia raffreddato le sue relazioni) , gli Emirati Arabi Uniti, e di recente anche le simpatie del presidente russo Vladimir Putin.

La polveriera libica è tutt'altro che sotto controllo.

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