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Parla capo campagna «Leave»

Brexit, così abbiamo vinto la guerra. Populismo globale, risposta locale

Torino – Il malcontento che genera populismo si è ormai globalizzato, ma le risposte per cavalcarlo o contrastarlo, vincere una competizione politica in questo anno elettorale, sono sempre più locali. Vi sono delle variabili che connotano il risultato, le campagne elettorali non possono sovrapporsi. Anche se il sentimento anti-governativo sembra lo stesso un po’ ovunque, la risposta del politico che cerca il consenso deve essere mirata. È quello che si pensa ascoltando Matthew Elliott, 38 anni, capo della vittoriosa campagna per Brexit mentre nell’aula del campus Einaudi distribuisce il volantino «Salva l’industria britannica del curry. Ogni settimana 3-5 ristoranti chiudono per le politiche sull’immigrazione. Vota Leave il 23 giugno».

Elliott è ospite di Election Days, workshop di comunicazione politica organizzato da Quorum/Youtrend con l’Università di Torino. Non è l’occasione e forse neanche l’anno giusto per obiettare l’origine indiana del curry, a Torino si parla di come si vince se si va al voto, ed Elliott non solo ha vinto partendo da sfavorito ma ha battuto più famosi colleghi americani impegnati per il Remain, David Axelrod e Jim Messina, consulente di Obama nel 2012, di Mariano Rajoy in Spagna e di Matteo Renzi per il referendum del prossimo 4 dicembre.

Elliott racconta agli studenti torinesi come si vince una campagna in un Paese in cui non si può fare propaganda in tv e alla radio. Davanti ai giovani del Remain che telefonavano ai nonni chiedendogli di votare per l’Europa, il messaggio opposto doveva essere altrettanto semplice: «Noi non abbiamo detto no all’Europa ma all’Ue. I Brexiteer non hanno mai negato che il Regno Unito fosse un Paese europeo».

Semplici sono stati anche i volantini, spartani, asettici, «fossero stati italiani sarebbero stati più eleganti». Quelli Brexiteer sono stati più accorti: il volantino pro Leave che promette più sicurezza mostra una famiglia sorridente in cui lui è un bruno scuro di pelle come i bambini, lei è bionda.

Volantini, social media, giornali, porta a porta: si possono mettere in ordine per importanza?
«Quando abbiamo messo su l’organizzazione, Facebook ha avuto un’importanza immensa, alla fine ci seguivano mezzo milione di persone. Ma sono stati i giornali a formare una narrativa su Brexit. Siamo stati fortunati perché molti giornali del Regno Unito hanno appoggiato l’addio alla Ue. Mi riferisco a Sun, Daily Mail, Daily Express, Daily Telegraph, ma anche il Times perché ha appoggiato il Remain ma ci ha lasciato lo spazio per spiegare le nostre ragioni».

Quindi i giornali sono ancora importanti?
«Direi di sì, ancora lo sono, sono molto importanti».

Elliott non vede similitudini fra il voto per Brexit e il referendum italiano.
«Ci sono stati diversi referendum quest’anno, quello britannico, ma penso anche a quello colombiano (mentre parlavamo il presidente Santos veniva premiato con il Nobel per la pace, ndr). Non vi sono somiglianze tra referendum perché riguardano temi diversi, è solo che gli elettori esprimono la stessa frustrazione contro i partiti al governo, in questo momento nel mondo il sentimento antigovernativo è generalizzato. E questo accomuna Gran Bretagna, Colombia e Italia».

Si potrebbe ipotizzare che il Leave come il Sì in Italia cambia lo status quo, ma le analogie si fermano qui. Quando parliamo di populismo, quanto è importante la componente locale?
«Penso che questo sentimento anti-establishment in tutto il mondo sia stato causato da due fattori: uno è stato sicuramente la crisi finanziaria a cui è seguito un periodo di austerità che le persone hanno sentito come una punizione. Poi i politici: in Gran Bretagna sono stati protagonisti di scandali per le loro spese e sono rimasti coinvolti in diversi casi di corruzione. Così le persone hanno smesso di guardare a quello che i governanti hanno fatto, vi è stata una combinazione di mancanza di fiducia verso i leader politici e dei business leader».

“Non vi sono somiglianze tra referendum perché riguardano temi diversi, è solo che gli elettori esprimono la stessa frustrazione contro i partiti al governo”

Matthew Elliott, 38 anni, capo della vittoriosa campagna per Brexit 

Nella campagna del Leave vi hanno aiutato diecimila attivisti, ai tempi del web serve ancora la campagna porta a porta?
«Possiamo dire che è stata utile fino a febbraio, ma poi abbiamo dovuto fare un salto di qualità. Volevamo capire che cosa la gente sapeva del referendum e che cosa pensava. Abbiamo usato computer model, modelli predittivi, poi siamo tornati nelle strade, per le case, per far passare il nostro messaggio in modo efficace».

Durante la campagna quando ha pensato: possiamo vincere?
«A febbraio, quando David Cameron è tornato a Londra con l’accordo (il negoziato con Bruxelles che avrebbe ridefinito la permanenza del Regno Unito nella Ue, ndr). Erano riforme che riguardavano più l’Unione europea che il nostro Paese. È lì che è iniziata la seconda fase della campagna, è in quel momento che le persone hanno capito che la nostra campagna era meritevole di fiducia».

In questa settimana la nuova premier Theresa May ha delineato il suo programma politico a Birmingham, più intervento dello stato, chiusura alla stranieri e più attenzione ai britannici. Ruba un po’ gli slogan dell’Ukip di Farage o è una nuova fase del partito conservatore?
«Senza dubbio è una nuova fase del partito conservatore. May era nel campo del Remain ma ha riconosciuto le ragioni del Leave e le ha rispettate, ora sta implementando Brexit. Ha fissato degli obiettivi chiave, vuole aiutare le classi in difficoltà ad avere una istruzione più adeguata, è la classe media che ha visto i propri stipendi diminuire con la crisi finanziaria e non li ha più visti risalire, sono coloro che hanno più risentito dell'immigrazione. May pensa sia una buona agenda che può andar bene anche all'ala sinistra del Labour e soddisfare il suo leader, Jeremy Corbyn».

May: Brexit prima delle elezioni tedesche

Come potremmo chiamare questa nuova fase dei conservatori britannici?
Elliott ci pensa un po’, poi risponde: «Penso che sia ancora una fase». Un’altra pausa, poi aggiunge: «David Cameron è stato un primo ministro piuttosto aristocratico, aveva un background di uomo ricco che faceva parte di un’élite, e anche il suo approccio era aristocratico».

Insomma May vuole cancellare il ricordo della Eton élite.
«Esatto».

Eton è una prestigiosa scuola frequentata dall’ex premier Cameron e dall’attuale ministro degli Esteri Boris Jonhson, ma la stessa May e suo marito hanno studiato a Oxford.
«May ha un diverso background, più da classe media: punta più alla meritocrazia e alla mobilità sociale, vuole dare un’opportunità a chi parte svantaggiato ma vuole investire su se stesso».

Certo è che la sua non si può definire una nuova forma di Tathcherismo, nonostante l’altra sola donna primo ministro del Regno Unito, Margaret Thatcher, sia stata evocata durante questa campagna per i modi rudi con cui trattava Bruxelles.
«Il Thatcherismo è stata una cosa diversa. Le due fasi hanno in comune solo che le due leader sono donne. Viviamo un momento particolare in cui i politici stanno scegliendo un basso profilo sia che si parli di riforme sociali sia che si studi come far tornare il mercato più “britannico”come conseguenza di Brexit».

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