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Filippine, Duterte strappa con Washington e abbraccia Pechino

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SVOLTA STORICA

Filippine, Duterte strappa con Washington e abbraccia Pechino

II  capo di Stato filippino Rodrigo Duterte accolto nella Grande sala del popolo  a Pechino da Zhang Dejiang, presidente del Comitato permanente del Congresso nazionale del Popolo cinese
II capo di Stato filippino Rodrigo Duterte accolto nella Grande sala del popolo a Pechino da Zhang Dejiang, presidente del Comitato permanente del Congresso nazionale del Popolo cinese

«Basta con le ingerenze degli Stati Uniti. Basta con le esercitazioni americane. Non metterò mai più piede negli Stati Uniti, lì sanno solo insultarci». Il presidente filippino Rodrigo Duterte sceglie Pechino per sancire nel modo più eclatante lo strappo con Washington, che, dopo tante dichiarazioni roboanti, ora assume sostanza tangibile, con il riavvicinamento diplomatico nei confronti della Cina e con i 13,5 miliardi di dollari di accordi bilaterali siglati durante la sua visita ufficiale.

Le dichiarazioni che ribadiscono la presa di distanza dallo storico alleato sono state pronunciate mercoledì sera, durante un incontro con la comunità filippina a Pechino, sotto gli occhi del vice-premier cinese Zhang Gaoli: «È ora di dire addio agli Stati Uniti», ha detto Duterte, che si è portato in delegazione oltre 200 imprenditori. Ancor più roboante la conclusione del discorso: «Forse andrò anche in Russia a dire a Putin che siamo in tre contro il mondo, Cina, Filippine e Russia». Lo stesso giorno, mille manifestanti si sono riuniti davanti all’ambasciata statunitense a Manila, per chiedere la chiusura della base militare Usa di Mindanao.

Gli accordi economici, che spaziano dal commercio alle infrastrutture, dal turismo alla lotta al narcotraffico, sono stati siglati il giorno successivo, al termine di un vertice con il presidente cinese Xi Jinping.

La svolta, coltivata sin dal giorno del suo insediamento a giugno, è un duro colpo per la strategia di contenimento di Pechino messa in atto dagli Stati Uniti. Il capo di Stato filippino, in cambio degli investimenti cinesi, non ha esitato a invertire la rotta nella disputa territoriale sul Mar della Cina meridionale, facendo fare a Manila un’autentica piroetta. Era stato proprio il suo predecessore, Benigno Aquino, nel 2013 a sfidare le sempre più invasive pretese di Pechino davanti alla Corte arbitrale dell’Aja. La quale, solo qualche mese fa, aveva dato ragione proprio alle Filippine, rigettando le pretese della Cina. Dopo quella sentenza, le relazioni tra i due Stati avevano raggiunto il grado zero: Pechino aveva raccomandato perfino ai suoi turisti di stare alla larga dal Paese, già snobbato dalle sue imprese.

Un dossier, quello delle acque territoriali su rotte attraversate ogni anno 5mila miliardi di dollari di scambi commerciali, che ha effetto su tutti i Paesi della regione. E che ha visto gli Stati Uniti sfidare apertamente la Cina con la propria flotta militare. Un raggiante Xi ha incassato il dividendo diplomatico della visita definendola «storica». Duterte, del resto, è stato accolto con onori concessi a pochi capi di Stato: parata militare e ricevimento nella Grande sala del popolo.

All’inizio di settembre, Duterte aveva causato un incidente diplomatico con Washington, apostrofando il presidente Barack Obama («sei un figlio di puttana») alla vigilia del vertice dei Paesi del Sud-Est asiatico di Vientiane in Laos, salvo poi tentare una goffa retromarcia. La colpa di Obama, condivisa dai leader europei e dall’Onu, era quella di aver criticato gli eccessi della guerra contro il narcotraffico lanciata da Duterte a fine giugno nelle Filippine: una crociata che in quattro mesi ha lasciato sul terreno oltre 3.700 morti, spesso piccoli spacciatori o semplici tossicodipendenti, uccisi dalle forze di polizia e da milizie paramilitari.

Washington guarda con preoccupazione a quello che sta succedendo a Manila e non può essere certo rassicurata dalla correzione di rotta tentata dai suoi ministri alle Finanze e alla Programmazione economica, che poche ore dopo le dichiarazioni di Duterte hanno ribadito che le Filippine intendono «mantenere le relazioni con l’Occidente». Gli Stati Uniti hanno cinque basi navali nell’arcipelago e da 30 anni svolgono esercitazioni navali congiunte. Quest’anno, Washington ha stanziato 180 milioni di dollari in aiuti militari a Manila. Perdere l’appoggio del suo più fedele alleato nel Sud-Est asiatico potrebbe avere ripercussioni pesantissime in tutta la regione e compromettere la strategia «Pivot to Asia», coltivata da Obama per tutto il suo secondo mandato.

Per ora, i funzionari americani minimizzano: le operazioni militari congiunte continuano e i “consulenti” Usa sostengono la campagna dell’esercito filippino contro Abu Sayyaf, l’organizzazione islamista con base nell’arcipelago di Mindanao che da anni sfida le autorità di Manila e che ha giurato fedeltà all’Isis. Dalle parole, però, Duterte è ormai passato ai fatti.

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