«Flawed». Sono anzitutto «difettosi». Un attributo che contrasta con la posta in gioco, la battaglia «esistenziale» invocata dagli stessi due aspiranti alla Casa Bianca, Hillary Clinton e Donald Trump. E che si ricorda a memoria d’analista: sei americani su dieci, mentre si recano alle urne - alle 12 italiane (le 6 locali) si sono aperti i seggi lungo la costa orientale, da New York a Washington, da
Boston a Filadelfia, fino a Miami - affermano di essere «insoddisfatti» della scelta, danno un non-mandato preventivo che minaccia di mettere in dubbio la leadership di chiunque venga eletto, di chiunque riesca a mobilitare la propria base e allargarla a sufficienza per tagliare il traguardo dei 270 Grandi elettori espressi dagli Stati.
Il clima politico è cambiato molto negli ultimi quattro anni. Questa percentuale era solo del 28% nel 2012, durante il duello tra Barack Obama e Mitt Romney. Un deficit di entusiasmo e un surplus di rancore che mostra le profonde spaccature del Paese, che solleva spettri di qualunquismo e crisi del sogno americano, e più immediatamente di difficoltà inedite in quell’altro grande rito post-elettorale americano, la ricomposizione, l’accettazione di vittorie e sconfitte e la possibilità di guardare avanti.
In discussione non sono oggi le ragioni per il voto, a favore dell’una o dell’altro. L’una, politica di antico lignaggio e prima donna alle soglie della Casa Bianca, conta sulle ragioni delle donne, delle minoranze etniche, dei giovani, dei bianchi istruiti. Fa leva sulla sua esperienza per assicurare che sarà un commander in chief responsabile, che si occuperà delle sfide davanti agli americani, dai redditi stagnanti alle tensioni internazionali alla minaccia del terrorismo. L’altro, primo grande outsider a un passo dalla presidenza, scommette invece sul voto dei tanti delusi dalla politica tradizionale, dei bianchi disagiati ed emarginati dalla ripresa economica che rinunciavano a votare, dei conservatori arrabbiati e spaventati da un successo ancora democratico che li condanni a una Corte Suprema con maggioranze scettiche sul diritto a portare le armi, iscritto nel Secondo Emendamento della Costituzione, e favorevoli al diritto d’aborto che offende la loro sensibilità religiosa.
Due candidati, insomma, con approcci e soluzioni opposte, che dividono il Paese. Ma che per gli americani sono in realtà più che mai uniti da un tratto comune - “flawed”, appunto - per nulla lusinghiero. In una stagione dove le pubblicità elettorali sono impallidite sia come investimenti che come impatto, tra la delusione dei network tv, tra le più riuscite non a caso c’è stato uno scambio di caricature raffiguranti il rivale appesantito da bagagli dai nomi che alludono a molte ombre. Interrogativi finora aggravati, non alleviati, dalle risposte e dalla statura dimostrata dai candidati. Una statura rimpicciolita da scandali come non accadeva, citano gli storici, dal lontano 1884, quando fioccarono accuse di corruzione e figli illegittimi tra gli ormai dimenticati James Blaine e Grover Cleveland. Dopo otto anni di Barack Obama caratterizzati da dure battaglie politiche ma liberi da drammi etici, la storia insomma si capovolge: il conteggio, prima di essere delle schede nei seggi, è diventato degli scheletri nell’armadio. E le ragioni del voto sono “ragioni contro”.
I bagagli della favorita Clinton, 69 anni, si sono accumulati nel tempo e lei, spesso sulla difensiva, non è riuscita a sbarazzarsene. Avvocato, First Lady dell’Arkansas e della Casa Bianca, poi senatore di New York e infine Segretario di Stato, la rete delle polemiche si è progressivamente infittita: nel passato ci sono le battaglie sostenute dalle amministrazioni del marito Bill, paralizzato in parte da inchieste su operazioni immobiliari (Whitewater), favoritismi nella gestione dell’Ufficio viaggi della Casa Banca (Travelgate), relazioni sessuali negate sotto giuramento (Monica Lewinsky). Oggi spunta l’uso e abuso di un server privato a rischio di pirateria informatica quando era Segretario di Stato e finito sotto indagine dell’Fbi fino alle ultime ore. Nel mezzo ci sono stati i conflitti d’interesse e gli affari poco trasparenti della Fondazione Clinton, sospettata di scambi tra favori politici e finanziari. Gli “sgambetti” al rivale Bernie Sanders durante le primarie democratiche per garantirsi la nomination. E anche i discorsi assai ben remunerati tenuti presso Wall Street in anni recenti mentre l’alta finanza era poco amata, forse non scandalosi ma di certo parsi inopportuni per un futuro candidato presidenziale. (Qui sotto la composizione della Camera dei rappresentanti secondo gli ultimi sondaggi di RealClearPolitics).
Trump, semmai, è ancora più nel mirino delle controversie personali e d’affari prima ancora che per il suo aggressivo populismo. I suoi difetti sono stati portati alla luce da molteplici inchieste giornalistiche e casi giudiziari oggi sotto gli occhi degli elettori: volgarità e atteggiamenti oltraggiosi nei confronti di donne e immigrati, tasse federali mai pagate per anni facendo risultare perdite e nascondendo reddito, la Trump University sepolta da valanghe di denunce per truffa, la fondazione familiare impegnata in manovre irregolari per coprire spese personali. E a ritroso nel tempo i ricorsi per discriminazione razziale nei suoi palazzi, le amicizie “pericolose” durante la scalata alla gloria con immobili e casinò, le ripetute bancarotte e i mancati pagamenti di miriadi di piccoli fornitori. Infine, ecco uno scandalo a margine: il capo della sua squadra di transizione Chris Christie, governatore del New Jersey, lambito dal “Bridgegate”, dopo che due suoi ex stretti collaboratori sono stati condannati per aver orchestrato la chiusura di corsie del grande George Washington Bridge per punire un sindaco locale che lo osteggiava. I due hanno testimoniato che Christie ne era al corrente. (Qui sotto la composizione del Senato secondo gli ultimi sondaggi di RealClearPolitics).
Il duello per la Casa Banca è arrivato al dunque con questi due candidati feriti. Il vincitore, una volta alla presidenza, avrà una missione urgente: dare credibilità alla sua amministrazione evitando che rimanga fin da subito paralizzata da continue polemiche, estensione di una cupa stagione elettorale. Pre-condizione per cercare di ricucire le divisioni del Paese e guardare davvero avanti, lasciandosi alle spalle gli scheletri. Non riuscirvi diventerebbe il “flaw”, il difetto decisivo e imperdonabile per gli americani.
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