Memori di quanto s’era visto nei giorni seguenti alla Brexit, le borse hanno pensato di non drammatizzare l’altrettanto traumatica elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Avevano reagito, guidate da troppo istinto, il 24 giugno e forse si sono mosse con molta condiscendenza ieri, trascurando che, come nel caso del referendum britannico, le conseguenze di un personaggio così destabilizzante alla presidenza degli Stati Uniti si faranno sentire non subito, ma nei mesi a venire. E, come aveva ricordato lo stesso Trump, queste elezioni americane saranno una «Brexit plus plus plus».
Sarà probabilmente così, perché gli ingredienti del successo di Trump sono facilmente esportabili in una Europa, che quegli elementi sta già coltivando da tempo: in politica, il crescente populismo e, in economia, il rispolverato motivo di politiche fiscali espansive. Siccome l’antidoto più forte al populismo montante è un populismo di segno parzialmente opposto, non è difficile immaginare che la spinta a una maggiore spesa pubblica finirà per contagiare non solo l’America, ma il Vecchio continente, nonché Cina e Giappone. Il tutto, unito alla volontà di protezionismo affermata da Trump nella campagna elettorale, è tale da mutare radicalmente lo scenario economico mondiale come lo si è visto modellare negli ultimi 40 anni.
A fronte di debiti pubblici in più forte crescita e a una maggiore inflazione, la primaconseguenza è che la politica monetaria non potrà essere così espansiva come la si è vista dopo il 2009 e che i rendimenti obbligazionari saranno destinati a salire più del previsto. Dunque, la lunga fase toro per i titoli di Stato e i bond è finita e l’inversione di tendenza rischia di risolversi in dramma per attività finanziarie in odore di bolla speculativa. Ammesso che il Congresso americano, seppur a maggioranza repubblicana, conceda al nuovo presidente completa libertà di azione, i forti tagli fiscali e l’ingente spesa pubblica promessi da Trump finiranno per far lievitare il debito pubblico di 5.300 miliardi in 10 anni, portandolo a livelli superiori a quello attuale dell’Italia. Mentre i dazi doganali e la ridiscussione degli accordi commerciali (Wto e Nafta) faranno aumentare la pressione inflazionistica.
Si dirà che la maggior spesa pubblica può, però, rilanciarel’economia: risultato probabile nel breve periodo, ma dubbio nel lungo, specie sele tentazioni protezionistiche finissero per limitare scambi internazionali già ridottisi negli ultimi due anni. Se ciò avvenisse, ed è probabile, s’avvicinerebbero i tempi di una recessione mondiale, con il risultato di vanificare le politiche fiscali espansive e di aggravare una situazione finanziaria potenzialmente compromessa dalla crescita del debito pubblico. Come sempre succede, i danni maggiori si vedranno nei paesi più deboli: tra gli emergenti e nuovamente in Europa. Per questo la reazione più sensata, ieri, è quella espressa dai Treasury e non da Wall Street.
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