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Dopo Brexit arriva «Trexit»: la Trumpnomics minaccia l’economia irlandese

Il premier irlandese Enda Kenny è stato uno dei primi leader mondiali contattati da Donald Trump: una telefonata di dieci minuti, in cui il neoeletto presidente degli Stati Uniti ha lodato il modello economico dell’Irlanda e invitato, come da tradizione, il premier alla Casa Bianca in occasione della festa di San Patrizio, in marzo. Dietro la forma cortese e cordiale però, la presidenza Trump - con i preannunciati tagli alla corporate tax e una strategia protezionistica in materia commerciale – fa temere a Dublino pesanti ripercussioni economiche e occupazionali, tanto che qualcuno si è spinto a ventilare, dopo quello legato a Brexit, un rischio “Trexit”: un cocktail micidiale dei due clamorosi eventi politici del 2016.

Il dibattito è acceso soprattutto sul fronte fiscale e a innescarlo hanno contribuito le dichiarazioni rilasciate giovedì alla Bbc da Stephen Moore, ex capo economista della Heritage Foundation e ora tra i principali consiglieri economici di Trump: «Credo che se taglieremo la corporate tax dall’attuale 35% al 15-20%, una marea di aziende lascerà l’Irlanda, il Canada, la Gran Bretagna, la Cina e il Messico per tornare negli Stati Uniti».

Lo stesso Moore venerdì ha corretto il tiro, specificando che le nuove misure (che Trump intende attuare nei primi cento giorni alla Casa Bianca) hanno nel mirino soprattutto Cina e Messico e che l’Irlanda, con la sua imposta societaria al 12,5%, manterrà comunque un vantaggio competitivo. E anche a Dublino parecchi si sono affrettati a gettare acqua sul fuoco. Il ministro delle Finanze, Michael Noonan, ha invitato ad attendere prima di tutto l’effettiva realizzazione dei piani in materia fiscale: «Ho passato tutta la mia vita politica a sentir promettere, durante la campagna elettorale americana, tagli alla corporate tax e non ho ancora visto misure tangibili. E sono stato eletto la prima volta nel 1974…»; e Alan Barrett, direttore l’Istituto economico e sociale di ricerca (Esri) ha escluso una fuga delle multinazionali. Molte di queste, soprattutto nel settore hi-tech e farmaceutico, hanno del resto scelto Dublino perlomeno come quartier generale europeo non solo per un’imposta societaria bassa, ma anche – si pensi al recente caso Apple – per le ulteriori agevolazioni fiscali concesse dal governo irlandese.

Il timore è che possano essere frenati quantomeno gli investimenti diretti esteri futuri, fondamentali anche per la ripresa dell’occupazione irlandese dopo la grave crisi finanziaria del 2008-2009. Le multinazionali, in definitiva, potrebbero essere meno incentivate a investire in Irlanda per ragioni fiscali.

Sul fronte commerciale, Trump si è espresso contro il libero scambio, assicurando che proteggerà gli interessi americani, se necessario anche imponendo o incrementando i dazi sulle importazioni. Anche in questo caso nel mirino c’è prima di tutto la Cina, ma la svolta rischia di mettere una pietra tombale sul Ttip, l’accordo di libero scambio con l’Unione europea in via di negoziazione; un accordo a cui, come ha sottolineato in questi giorni Ian Talbot, ad delle Camere di commercio irlandesi, Dublino guardava con particolare favore, considerandolo un’opportunità per aprire nuovi sbocchi alle Pmi irlandesi dopo il contraccolpo legato a Brexit.

Per la ritrovata Tigre Celtica - +4,1 e +3,6% le ultime stime di crescita della Commissione per il 2016 e il 2017 – ce n’è insomma abbastanza per non dormire sonni tranquilli.

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