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La Bce rallenta il Qe, ma non è un pre-tapering

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La Bce rallenta il Qe, ma non è un pre-tapering

Foto Epa
Foto Epa

Un gioco di equilibrio. La Bce decide di ridurre da marzo, a 60 miliardi dagli attuali 80, l’ammontare di acquisti mensili di titoli ma cerca di fare di tutto perché questo non appaia agli investitori come un pre-tapering, un preludio alla strategia di uscita dal quantitative easing (qe). Il programma continua quindi fino a dicembre «o oltre, se necessario»; e, nel frattempo, «se le prospettive divenissero meno favorevoli o le condizioni finanziarie divenissero incoerenti» con il raggiungimento dell’obiettivo di inflazione, la Banca centrale potrà prolungarlo ulteriormente o aumentarne le dimensioni.

Gli acquisti potranno quindi tornare, se necessario, al ritmo di 80 miliardi al mese, una cifra - ha rivelato il presidente Mario Draghi in conferenza stampa - che è effettivamente emersa nella discussione del consiglio. Nulla quindi - è il messaggio della Banca centrale - deve far pensare a un tapering, che «non è sul tavolo», e che «non è in vista», e di cui «non si è discusso», ha detto il presidente precisando che nessun componente del board si è espresso in suo favore. Neanche quei pochi contrari all’estensione del qe, approvato con un consenso «molto molto ampio», ma non con l’unanimità (i tedeschi, è immaginabile, avranno manifestato le loro perplessità).

Due sole ipotesi sono state esaminate: acquisti per 80 miliardi per sei mesi, e per 60 miliardi per nove mesi. È stata scelta questa seconda possibilità, ha spiegato Draghi, per due motivi: si è innanzitutto tornati alle dimensioni originarie del qe, che era stato poi portato a 80 miliardi perché le prospettive sull’inflazione erano diventate «più cupe» e esisteva un rischio di deflazione ora meno forte; e poi perché si è voluto sottolineare agli investitori che la Bce intende mantenere per lungo tempo una «notevole presenza» sui mercati ed esercitarvi una pressione sui prezzi.

È possibile che abbiano inciso anche fattori tecnici: per rispettare il parametro, forse insuperabile, del capital key (si possono acquistare in ciascun paese titoli in proporzione della loro quota nel capitale della Bce) la Banca centrale ha dovuto ampliare, per i titoli pubblici, le scadenze acquistabili (il minimo è sceso a un anno, da due). Soprattutto ha lasciato aperta l’opzione di acquistare titoli che rendano meno del -0,40%, il livello del tasso sui depositi, un’eventualità che si traduce in una perdita certa per le banche centrali nazionali che materialmente effettuano gli acquisti. Non è necessariamente un problema - le banche centrali non devono massimizzare i profitti - ma potrebbe diventarlo, se non altro sul piano politico: è la Bundesbank, probabilmente, la banca centrale più esposta.

Il timore dunque di inciampare di nuovo, come era accaduto un anno fa, sulle aspettative dei mercati, deludendole e ritrovandosi con condizioni finanziarie peggiorate, ha molto pesato sulla comunicazione della decisione di ieri. Una scelta, sul piano sostanziale, che rende più facile il tapering - immaginando un calo degli acquisti di 10 miliardi al mese, durerà solo cinque mesi invece di sette - soprattutto se fosse necessaria una brusca accelerazione dell’exit strategy; ma che lascia effettivamente più aperto rispetto al passato il termine finale delle operazioni.

Non è quindi un quantitative easing senza data finale (sarebbe stato poi complicato reintrodurre un termine), ma gli somiglia molto. Le prospettive sull’andamento dei prezzi, del resto, non sono ancora rassicuranti. Le proiezioni dello staff puntano a un’inflazione del +1,7% medio nel 2019. È un livello coerente con l’obiettivo, un livello in fondo «al di sotto», anche se «vicino» al 2%. «Non proprio - ha detto Draghi - Occorre persistere».

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