Oltre una dozzina di sanguinosi attentati in un anno, l'assassinio in diretta dell'ambasciatore russo Karlov ad Ankara e adesso, nella notte di capodanno, la strage del Reina, uno dei locali della ex dolce vita sul Bosforo: la Turchia di Erdogan ha importato il terrorismo mediorientale e farà assai fatica a liberarsene.
E tutto questo, forse non a caso, proprio mentre all'Onu il Consiglio di sicurezza approvava l'intesa sulla tregua in Siria raggiunta da Russia, Turchia e Iran: la vera svolta epocale della politica di Erdogan. Inoltre questa Turchia è diventata sempre più vulnerabile: dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio scorso le purghe hanno decimato le forze armate e quelle di sicurezza. La Turchia è un Paese che oscilla pericolosamente verso una deriva mediorientale dove è stata trascinata dalle spericolate iniziative di Erdogan che voleva abbattere Assad aprendo cinque anni fa “l'autostrada della Jihad” e ora ha dovuto mettersi d'accordo con Putin e l'Iran per salvaguardare i suoi vulnerabili confini.
Erdogan ha perso la guerra in Siria e ha ribaltato la sua politica estera in pochi mesi accettando che il regime di Damasco resti in sella. Ma naturalmente non c'è soltanto il terrorismo islamista dell'Isis, l'ipotesi più battuta in queste ore, tra le piste che si seguono di solito negli attentati ma anche quello curdo, perché nell'Anatolia del Sud Est dal 2015 è tornata la guerra tra il governo di Ankara e le formazioni della guerriglia e del terrorismo, come il Pkk o quei misteriosi Falconi del Kurdistan che recentemente hanno rivendicato alcuni attentati alle forze di sicurezza.
La Turchia paga la retorica e le azioni di un leader che si è proposto con orizzonti neo-ottomani flirtando con i gruppi radicali islamici per utilizzarli contro Damasco ma anche nei confronti dei curdi. Basta ricordare l'assedio di Kobane e il coinvolgimento ambiguo di turchi a favore dell'Isis, petrolio compreso. Ossessionato dall'incubo strategico di un embrione di stato curdo alle frontiere, Erdogan prima ha fallito l'obiettivo di eliminare Assad e di portarsi via un pezzo di Siria, di cui Aleppo era il boccone più ambito, quindi ha dovuto scendere a patti sia con Mosca che l'Iran.
Ma lui, Erdogan, è sicuramente quello dei tre che ha meno sotto controllo la situazione nonostante mantenga il ricatto all'Europa con l'accordo sui migranti e alla Nato, ormai ben consapevole che Ankara persegue i suoi esclusivi interessi, molto meno quelli dell'Alleanza. È stato necessario oltre un anno di trattative estenuanti perché la Turchia concedesse agli Usa la base di Incirlik per bombardare l'Isis con la clausola di fare lo stesso contro i curdi siriani, considerati da Washington membri della coalizione contro il Califfato. I militari occidentali ormai non comunicano più nelle basi Nato con i colleghi turchi e gli stessi vertici dell'Alleanza temono che le purghe nelle forze di sicurezza abbiano minato la fiducia dei militari.
Questa dovrebbe essere una lezione da tenere a mente anche per i leader occidentali se pure loro non fossero stati complici volonterosi dell'attuale deriva della Turchia. Gli Stati Uniti in primo luogo, che con l'ex segretario di Stato Hillary Clinton hanno dato il via libera a Erdogan per far fuori Assad, la Francia che ha visto in Ankara una pedina per le sue ambizioni di ex potenza coloniale in Siria pagando con gli attentati del terrorismo jihadista. Non solo Erdogan si è impantanato in Medio Oriente ma adesso per venirne fuori deve fidarsi di Putin che di lui, nonostante abbia fatto pace, non si fida affatto: gli errori dell'apprendista raìs ora li paga tutta la Turchia ma anche l'Europa che non può vedere inerte la sedicesima potenza mondiale, legata a doppio filo dall'economia, scivolare nel caos.
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