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Lotta all’Isis, gli Stati Uniti non vendono i curdi a Erdogan

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Tillerson ad ankara

Lotta all’Isis, gli Stati Uniti non vendono i curdi a Erdogan

Rex Tillerson e  Recep Tayyip Erdogan (Afp)
Rex Tillerson e Recep Tayyip Erdogan (Afp)

Erdogan ci ha provato a “comprare” i curdi siriani dagli Stati Uniti e anche un posto al sole nell'assedio di Raqqa. Per dimostrare la sua buona volontà ha persino annunciato, mentre il segretario di Stato Usa Rex Tillerson arrivava ad Ankara, che l'operazione militare turca nel Nord della Siria, “Scudo dell'Eufrate”, era finita. Lanciata nell'agosto scorso nominalmente contro il Califfato, l'operazione aveva dimostrato il vero obiettivo della Turchia: colpire i curdi e allontanare la possibilità che si creasse ai suoi confini un'enclave irredentista, il peggiore incubo strategico di Ankara.

Ma gli americani non hanno abboccato: i curdi siriani restano, per il momento, i loro alleati nella lotta all'Isis e nell'assedio di Raqqa, la capitale di Al Baghdadi. I curdi per altro sono sostenuti anche da Mosca che non può abbandonare al suo destino una minoranza cui ha sempre fornito appoggio insieme a quello, ancora più robusto e di antica data ideologica, elargito al Pkk curdo in Turchia.

A denti stretti Rex Tillerson, ha riconosciuto che, pur essendo Ankara un partner chiave nella lotta al terrorismo, «ci sono scelte difficili da fare». In poche parole americani e turchi non sono per niente d'accordo sugli alleati scelti nel combattere l'Isis.

Il nuovo segretario di Stato Usa non ha quindi portato la svolta sperata da Erdogan. Le differenze restano anche sul futuro politico della Siria e non sono indifferenti: «La permanenza di Assad nel lungo termine dovrà essere decisa dal popolo siriano», ha detto Tillerson che in questo modo ha recuperato un cavallo di battaglia di Trump durante la campagna elettorale, quando da candidato aveva auspicato un'alleanza con Damasco per combattere il terrorismo.

Non deve essere stato facile per Erdogan sentire che Assad resterà in sella dopo avere sbandierato per sei anni che l'autocrate siriano avrebbe dovuto lasciare il potere appoggiando la guerriglia jihadista contro il regime, per altro con l'aiuto economico delle monarchie del Golfo e l'assenso dell'ex segretario di Stato Hillary Clinton.

Erdogan paga i suoi errori di calcolo che hanno portato la Turchia, membro storico della Nato, a chinare il capo davanti alla Russia di Putin e all'Iran degli ayatollah. In Siria Ankara è stata sconfitta e abbandonata dai suoi alleati occidentali.

Ma gli stessi americani devono fare buon viso a cattivo gioco: la Turchia di oggi non è un Paese ancorato come un tempo nel campo occidentale, piuttosto si muove con un pendolo tra Est e Ovest. Suona quindi quasi ironico che Tillerson in casa di Erdogan abbia dichiarato che bisogna «frenare il ruolo destabilizzatore dell'Iran nella regione». Ma la Turchia ha dovuto sedersi al tavolo proprio con Teheran e con Mosca per il cessate il fuoco raggiunto ai negoziati di Astana. La distanza con Washington resta anche sull'estradizione di Fethullah Gulen, la presunta mente del fallito golpe del luglio scorso.

Nonostante le differenze di posizione tra americani e turchi e le evidenti divergenze strategiche sulla Siria, il viaggio di Tillerson conforta Erdogan per il referendum costituzionale del prossimo 16 aprile. Quindi niente dichiarazioni ufficiali sui diritti umani, sulla libertà di stampa e di espressione in un Paese che tiene in carcere 150 giornalisti e i leader del partito curdo Hdp.

L'importante era evitare brusche frizioni anche dicendo semplicemente la verità: Washington e Ankara stanno ricucendo un rapporto assai complicato e di reciproca diffidenza in vista a maggio del primo faccia a faccia tra Erdogan e Trump. Ma allora il risultato del referendum turco e la guerra in Siria avranno già distribuito gli assi in mano ai giocatori del poker mediorientale.

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