Donald Trump lo aveva sempre ribadito durante la sua arrembante campagna elettorale: se vinco ridurrò le imposte societarie dal 35 al 15% e varerò un prelievo una tantum del 10% - per il rimpatrio di profitti parcheggiati all’estero - pari a 2.600 miliardi di dollari complessivi. Una bella sommetta. Ora che è alla Casa Bianca ci prova e spera che stavolta gli stessi rappresentanti repubblicani non gli facciano lo sgambetto come nel caso dell’Obamacare.
Facciamo un passo indietro per capire la posta in gioco. Mentre molti paesi impongono alle società di pagare le tasse solo sui profitti nazionali, gli Stati Uniti estendono il prelievo fiscale a tutti i redditi globali, la World wide taxation. Le aziende possono evitare questo prelievo aggiuntivo provando di aver effettuato investimenti all’estero per quel denaro o accumulandolo all'estero, e questo è il sistema secondo gli esperti più usato.
Trump però vuole riportare i profitti negli Stati Uniti (America first è il suo motto) per creare investimenti e posti di lavoro in casa. Detto fatto: ha chiesto ai suoi consulenti di predisporre all’interno della riforma fiscale questa sorta di “condono” - attualmente l’imposta sui profitti all’estero è del 35% come quella sugli utili prodotti in patria - per far rientrare i profitti fatti all’estero dalle multinazionali americane. Profitti che le società potranno poi usare ad esempio per ricomprare azioni proprie o distribuirli come dividendi agli azionisti.
Il fatto è che la questione della tassazione e dell'elusione fiscale delle aziende, soprattutto di grandi corporation multinazionali, è un problema sostanzialmente irrisolto negli Usa nonostante la precedente amministrazione Obama avesse cercato di ridurre i buchi legislativi riguardanti le finte acquisizioni all’estero con annessa fusione societaria.
Un rapporto del Congresso del 2013 aveva messo in luce i tesoretti trasferiti o preservati all'estero dai giganti americani per evitare il rischio di una tassazione sui profitti reimpatriati tuttora prevista dalle efficienti autorità fiscali Usa.
La Apple, la società di Cupertino da sola, con i suoi 230 miliardi detenuti legalmente all'estero, pesa parecchio sui 2.600 miliardi di dollari complessivamente parcheggiati oltreconfine al riparo dal fisco americano.
Marcia indietro invece sulla più volte ventilata border tax, cioè una tassa sulle importazioni, il cui obiettivo era di disincentivare la delocalizzazione di imprese all’estero. Una tassa che aveva suscitato le perplessità di molte multinazionali.
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