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Una guerra che non si vince bombardando dai cieli

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il caos in afghanistan

Una guerra che non si vince bombardando dai cieli

(Epa)
(Epa)

Il gravissimo attentato avvenuto questa mattina nel cuore di Kabul ci obbliga a riflettere sul turbolento periodo che sta vivendo il martoriato Afghanistan . E ci suggerisce quattro considerazioni, difficili da confutare.
Dal ritiro delle truppe internazionali da combattimento (missione Isaf), completato alla fine del 2014, la situazione è tutt’alto che migliorata. Anzi non è fuori luogo sostenere sia peggiorata.
È grande motivo di preoccupazione che non ci sia una sola area del Paese che non sia vulnerabile. E l’attentato di oggi a Kabul è solo l’ultimo di una lunga serie. Colpa di un Governo afghano ancora fragile e diviso, e soprattutto di un esercito nazionale male addestrato e non all’altezza di un compito così arduo.

Altro punto critico. La crescente penetrazione – pericolosità - dei gruppi legati all’Isis è una realtà di cui occorre prendere atto, ed affrontare di conseguenza.
Infine la guerra più lunga –e costosa – mai combattuta dagli Stati Uniti non si vince scagliando dal cielo la madre di tutte le bombe (come avvenuto in aprile contro postazioni dell’Isis), ma probabilmente richiederà più stivali sul terreno e strategie sul lungo termine.

La prova che anche Kabul non è sicura
Sono quattro questioni spinose. A cominciare dalla sicurezza. Se è vero che circa metà del territorio, per quanto siano soprattutto zone rurali, è controllato dai gruppi di insorti, la priorità per il Governo afghano è mostrare al mondo che almeno la capitale Kabul, cuore delle istituzioni e sede delle ambasciate straniere, sia al sicuro.
Purtroppo non è così. La cronaca degli ultimi mesi racconta quanto la capitale afghana, anche i quartieri più protetti come quello colpito oggi, sia divenuta un obiettivo facile per gli estremisti. Solo per ricordare i più cruenti attentati, 27 giorni fa un’auto bomba, rivendicata dall’Isis, è stata fatta esplodere al passaggio di un convoglio di truppe straniere, nei pressi dell’ambasciata americana,

provocando otto vittime civili. E non sono trascorsi nemmeno tre mesi dall’8 marzo, quando un attentato compiuto da un commando di quattro terroristi (tra cui un kamikaze) travestiti da medici, e rivendicato ancora una volta dalle cellule dallo Stato islamico della provincia del Khorasan, aveva colpito ancora una volta il cuore del quartiere diplomatico di Kabul uccidendo più di 30 persone, tra le quali diversi medici e infermieri. Un mese prima, il 7 febbraio, sempre le cellule afghane legate all’Isis avevano fatto esplodere i loro kamikaze davanti alla Corte suprema di Kabul falciando la vita a quasi 30 persone.

Elencare gli attentati che avvengono con cadenza quasi quotidiana nel resto del Paese richiederebbe un continuo aggiornamento. Ma il grande attacco sferrato lo scorso mese contro un centro di addestramento dell’esercito afghano nella città settentrionale di Mazar-e Sharif – peraltro ritenuta una delle più sicure prima del ritiro delle truppe Nato - ha ucciso 135 soldati, spingendo il ministro della Difesa a rassegnare le sue dimissioni.
E qui veniamo al secondo punto. Per quanto numerose (320mila unità, ma meno della metà effettivi), le forze di sicurezza afghane non sono ancora in grado di contrastare efficacemente l’avanzata dei Talebani e dell’Isis. Siamo in una situazione di stallo, se non peggio.
Ma i 13.300 militari stranieri della missione “Resolute support”, una missione solo di addestramento, che dal 1° gennaio 2015 ha sostituito Isaf, non appaiono sufficienti. È vero che su 8.400 militari americani, 2,500 sono impegnati in operazioni anti-terrorismo contro al-Qaeda e l’Isis. Ma il loro numero è inadeguato.

La decisione di Trump non potrà essere risolutiva
Dopo aver tentennato per diversi mesi, il presidente americano Donald Trump sembra voglia ascoltare il parere dei suoi strateghi militari ed inviare ulteriori 5mila soldati. A condizione che anche i Paesi stranieri amici facciano la loro parte. Significherebbe dunque che anche all’Italia, che vanta il secondo contingente per numero in Resolute Support (oltre mille militari), possa essere avanzata una richiesta analoga . Ma anche in questo caso non saranno 5mila o 8mila soldati in più a fare la differenza.

Per ottenere dei concreti successi militari e ridimensionare i Talebani il presidente americano Barack Obama annunciò nel 2009 un grande “surge”, un ulteriore invio di 30mila soldati, portando il totale delle truppe americane nel Paese sopra le 100mila unità (oltre a quelle dei Paesi aderenti all’Isaf).
Operazioni che comportarono costi proibitivi. Sia in termini di risorse finanziarie, sia in termini di vite umane.

Se solo potesse farlo, forse Trump vorrebbe lasciare l’Afghanistan abbandonato a sé stesso. Ma l’Afghanistan è una crisi a cui un presidente americano non può sottrarsi. Una sfida che da quasi 40 anni viene tramandata da presidente in presidente. Lo sanno bene cinque precedenti inquilini delle Casa Bianca. Jimmy Carter, Ronald Reagan, George W. Bush e Barack Obama. Ora che la Russia sta cercando di rafforzare la sua influenze in quest’area, la Guerra più lunga combattuta dagli Usa – siamo al 17° anno - , e quella costata di più ai suoi contribuenti (mille miliardi di dollari), sta mettendo Trump in un angolo, forzandolo ad intensificare gli sforzi.

Non basta bombardare
Ma è bene ricordare che in questo paese montagnoso, la guerra non si vincerà bombardando dal cielo. Si rischiamo peraltro “danni collaterali”, vittime civili uccise per errore, che renderebbero la popolazione afghana ancor più ostile verso gli Stati Uniti di quanto non lo sia già.
La guerra si vince anche con altre strategie. Più uomini sul terreno, ma soprattutto un processo di counter insurgency per portare la popolazione dalla propria parte. E soprattutto investendo in progetti educativi e infrastrutturali, e rendendo più credibili e trasparenti istituzioni ancora oggi troppo corrotte.

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