Theresa May era arrivata prima dell’alba nel quartiere elettorale del suo partito, dopo aver trascorso la notte nel suo collegio elettorale; ha parlato con i capi Tory, è poi rientrata a Downing Street. Citi - ma probabilmente tutta la City - predice «un periodo di incertezza politica» e si aspetta che il primo ministro da meno di un anno si dimetta. May ha chiesto e ottenuto le elezioni anticipate, le ha perse, non ha la maggioranza assoluta, certifica alle 6.30 Bbc. La prima donna primo ministro dopo Margareth Thatcher ha deciso dunque di resistere. Si è invece già dimesso Paul Nuttall, successore di Nigel Farage alla guida dell’Ukip, il partito populista ed eurofobo che ha legato la sua stessa ragion d’essere a Brexit e ora passa da un seggio a zero.
Il resuscitato leader laburista Corbyn dice di essere già pronto a «servire il suo Paese» certo non da premier piuttosto come leader di un’opposizione che pressa sui temi che lo hanno fatto tornare a livelli di consenso di Tony Blair - già rivendica di aver riunito i vecchi e giovani spaccati dal voto di Brexit solo un anno fa. Dall’alba su Twitter i laburisti chiedono le dimissioni della signora May, fra loro anche Ed Miliband, ex leader del partito sconfitto nel 2015: May non ha perso solo la maggioranza, scrive nel post, ma anche la forza necessaria per negoziare Brexit. Già qualche conservatore come Anna Soubry le chiede di «considerare la sua posizione». Non è un benservito ma poco ci manca.
Eppure May ancora stamattina sembra voler dettare le condizioni: non vuole che Bruxelles rinvii i negoziati sulla Brexit con la scusa che «non c'è un governo in Gran Bretagna» (fonti Sky News). Questa potrebbe essere la linea di fronte al partito, al Paese e alla Regina per tentare di rimanere premier. Ma spuntano già i nomi di possibili nuovi premier, il più clamoroso quello di Boris Johnson, ex sindaco di Londra, convinto Brexiter, ministro degli Esteri dell’uscente governo May.
I conservatori conquistano 318 seggi sui 326 necessari per governare da soli. Non è la prima volta che la Gran Bretagna si ritrova con un Parlamento hung, impiccato. È già successo nel 2010, quando il conservatore David Cameron fu costretto a un governo di coalizione con i lib-dem di Nick Clegg, ma stavolta un’alleanza comunque necessaria è più difficile perché Brexit divide i due partiti. I lib-dem sono fra i pochi orgogliosi superstiti del fronte Remain, non arresi all’idea di uscire dall’Unione europea, il che li allontana certamente dal primo partito - i Tory di May - ma anche da un Labour in grande rimonta (261 seggi, 29 in più delle politiche del 2015).
Se non si è d’accordo neanche se rimanere o no nell’Unione - i lib-dem di Farron insistono su un secondo referendum, con questa elezione guadagnano 4 seggi e arrivano a 12 - è difficile pensare di governare assieme.
Decisivi i dieci seggi degli Unionisti
Con un partito di maggioranza relativa May ha così già avviato contatti con gli Unionisti dell’Irlanda del Nord, il Dup, partito conservatore di protestanti che assicurerebbe i dieci seggi e darebbe la possibilità di creare un governo. Il Dup è però disposto a dare «appoggio e fiducia» ma non vuole far parte di una formale coalizione come quella che rese possibile il governo Cameron-Clegg.
La disfatta dei nazionalisti scozzesi
Gli altri convinti europeisti, i nazionalisti scozzesi di Nicola Sturgeon, perdono rovinosamente, passano da 56 a 35 seggi a tutto vantaggio dei laburisti. La causa europeista si annacqua - così come si allontana il sogno di un altro referendum per la secessione scozzese accarezzato da Sturgeon - ma questo non equivale a un rafforzamento del Leave. Anzi le prime vittime di questo precipitoso voto sono la sterlina e Brexit nella sua versione hard.
Sempre giugno, ancora scontento
Il motivo è semplice: la classe politica britannica affronta un’altra estate di scontento che non si placa ma muta. Giugno 2016, la classe operaia e i vecchi votano per Brexit. Giugno 2017 la stessa classe operaia e i giovani fanno rimontare un leader come Corbyn che oggi è oltre il 40% e solo qualche mese fa compariva fra i necrologi politici dei leader di sinistra europei. Quelli annichiliti in Francia e in difficoltà in Italia, per non andare lontano.
Non si può certo escludere un altro voto a breve ma nelle prossime ore bisogna guardare cosa accade in casa Tory. Chi sono i deputati eletti, cosa vogliono fare di questo primato senza vittoria, soprattutto come cambiano gli umori rispetto a alla vera leva di un altro giugno tempestoso sull’Isola, ancora Brexit.
May voleva i suoi deputati più Brexiters, più convinti e duri con la Ue, perde dodici seggi, la maggioranza assoluta e forse un partito che non l’ha mai seguita fino in fondo - chi si è convertito a forza alla causa euroscettica, chi ha continuato a puntare i piedi. Partito che è anche una «monarchia temperata dal regicidio» come da felice definizione di un altro ex leader Tory, William Hague.
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