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Detroit, sulla strada c’è la Silicon Valley

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REPORTAGE

Detroit, sulla strada c’è la Silicon Valley

(Afp)
(Afp)

L’anima di Detroit è rinata. Le rovine del Novecento industriale restano. Gli stabilimenti abbandonati segnano il profilo urbano della città. Le case degli operai bruciate. Le villette finto vittoriane disabitate. Ma, intorno, il paesaggio industriale è cambiato. L’auto di Detroit, nel 2009, è finita a terra. In pochi anni, si è rialzata. Grazie al salvataggio pubblico di Chrysler, di General Motors e dell’intero sistema della componentistica del Michigan, realizzato con fondi federali dalla Casa Bianca di Barack Obama. Ma, soprattutto, attraverso la sua metamorfosi interna: nuovi dirigenti, nuove strategie, nuovi prodotti. Anche se, adesso, sono imminenti altri due round: la cooperazione-competizione con la Silicon Valley e gli effetti delle politiche economiche di Donald Trump.

Daniel Sandberg ha la faccia da pugile. È l’amministratore delegato di Brembo North America, che si trova a Homer, mezz’ora di macchina da Detroit. Sandberg ha una laurea in legge. Ma si è misurato con le pratiche legali soltanto per quattro anni. Poi, per due anni, si è occupato di supermercati e, per altri quattro, di servizi finanziari. Quindi, è entrato nell’industria dell’auto, «anche perché qui a Detroit – dice – siamo tutti car guy». Oggi ha 58 anni. Il suo punto di vista sulla rinascita di Detroit è soprattutto industriale. Dan ha visto l’ascesa e la caduta dei giganti. Ford, General Motors e Chrysler. Che, oggi, sono ritornati in piedi. «La rinascita del settore dell’auto – spiega – è basata soprattutto su una mutazione strategica. La Detroit Area di oggi è molto più creativa. Si punta sui prodotti. Vent’anni fa tutti parlavano soltanto di taglio dei costi. Adesso, i tre costruttori sono invece concentrati sulle linee di business e sull’innovazione».

Una mutazione resa possibile dal violento abbattimento dei costi del lavoro e della previdenza pilotato dalle case automobilistiche e dalla politica americana, con il placet del sindacato dell’auto. E, ora, maturata definitivamente con il matrimonio – non si sa ancora se di lunga e felice durata o di corto e affannoso respiro – fra Detroit e la Silicon Valley.

Google ha aperto a Novi un centro di Ricerca e Sviluppo. Uber sta studiando la guida autonoma a Wixom. Tesla, vero turning point del nuovo paradigma dell’auto con la doppia componente tecno-manifatturiera (l’auto elettrica) e logististico-commerciale (l’eliminazione dei concessionari), ha acquisito a Gran Rapids un fornitore specializzato in stampaggio, la Riviera Tool Company.

Il matrimonio fra due comparti

La prima tendenza che si intuisce è una unione necessaria fra i due comparti. Con, peraltro, una crescente importanza dei settori in cui si intersecano la meccanica, l’alta tecnologia e i servizi: per esempio, la Bose è a Great Lakes. «L’advanced manufacturing e l’Industry 4.0 – nota Sandberg – sono la cifra principale dell’economia di questa parte degli Stati Uniti».

Otto anni fa, la Detroit Area pareva il deserto. Oggi 16 produttori hanno il quartier generale o il centro di Ricerca e Sviluppo in Michigan. Gli impianti di assemblaggio finale sono 12. Si contano 92 grandi componentisti. Nel 2016, l’export è stato superiore a 26 miliardi di dollari. La R&S dell’auto vale 11 miliardi di dollari, i tre quarti di una attività di ricerca di un Michigan che è uno degli Stati più avanzati del Nord America. Gli occupati nella manifattura sono pari a 600mila; 170mila operano nell’auto. In questo comparto, dal 2012 sono stati compiuti investimenti per 22,7 miliardi di dollari. Dallo stesso anno, gli investimenti di imprese automotive straniere sono ammontati a 4,8 miliardi di euro, con la creazione di 20mila posti di lavoro. «L’ibridazione fra assemblatori e componentisti e fra imprese americane e straniere ha consentito alla Detroit Area di tornare a essere un traino per il Michigan e per tutti gli Stati Uniti. Gli insediamenti principali sono tedeschi e giapponesi. Ma anche i francesi e gli italiani hanno il loro ruolo», spiega Aurora Battaglia, vicepresident di Comerica Bank con la delega ai grandi clienti europei.

Secondo lo U.S. Bureau of Economic Analysis, dal 2009 al 2015 il Pil composto dello Stato è cresciuto del 15,9%, il secondo risultato degli Stati Uniti. Il livello della corporate tax è pari al 6 per cento. Nel 2009 il tasso di disoccupazione nel Michigan era del 15,2 per cento. Nel giugno di quest’anno si è attestato al 3,8%, il più basso dal 2000.

In questo meccanismo di ritrovato sviluppo, c’è il dilemma della cooperazione-competizione fra la Detroit Area e la Silicon Valley. Negli ultimi cinque anni, gli investimenti sono stati pari nella Detroit Area appunto a 22,7 miliardi di dollari e nella Silicon Valley a 564 milioni di dollari; i progetti per i veicoli connessi e a guida autonoma sono 49 in Michigan e 35 in California; i brevetti sono rispettivamente 3.831 e 1.213.

«Al di là della dimensione quantitativa – osserva Aurora Battaglia – c’è una innegabile differenza di cultura fra l’industria dell’auto del Michigan e la Silicon Valley. I cicli della innovazione non sono paragonabili. Il vero dilemma è rappresentato da quale esito avrà, sul lungo periodo, l’incontro fra queste due realtà».

Nella Detroit Area e in tutto il Michigan, si stende una rete di laboratori di ricerca che, fra pubblico e privato, rappresenta il punto di congiunzione fra l’auto tradizionale e l’auto nuova: il Lift (Lightweight Innovations for Tomorrow) per i nuovi materiali, lo University Research Corridor creato da Michigan State University, University of Michigan e Wayne State University, lo U.S. Environmental Protection Agency’s National Vehicle and Fuel Emissions Laboratory, lo U.S. Army Tank Automotive Research, Development and Engineering Center. Ad Ann Arbor, sede della University of Michigan, si trova il progetto MCity con le piste per le auto a guida autonoma. E, poi, c’è il cappello pubblico del Michigan’s Automotive & Mobility Association che prova a svolgere una funzione di coordinamento.

Afferma Jay Baron, presidente e amministratore delegato del Center for Automotive Research, di Ann Arbor: «Una volta, la centralità delle case automobilistiche era assoluta. Erano loro i grandi organizzatori di sistema. Adesso, invece, il controllo muove verso il software. La leadership dell’integrazione di sistema sembra spostarsi verso l’information technology».

La prevalenza del software

Tutto questo sta causando una redistribuzione del valore aggiunto e sta modificando la ripartizione della ricchezza generata dalle automobili e dai suoi nuovi utilizzi. «L’industria tradizionale dell’auto – prosegue Baron – ha una sorta di dipendenza su queste competenze: per esempio, lo sviluppo del software». Fa effetto pensare che, oggi, si trova più software code su una auto che su un Jet Fighter.

Oltre al cambio di paradigma dell’industria dell’auto, gli altri due elementi che hanno rimodulato il paesaggio industriale del Michigan sono la comparsa del fenomeno Trump e la mutazione del ruolo del sindacato. Dice Sandberg: «Per il settore dell’auto, sono emerse incognite oggettive. È vero che il segretario al Commercio, Wilbur Ross, è molto vicino all’industria dell’auto. Ma è altrettanto vero che l’agenda di Trump è contraria alla globalizzazione. E noi siamo in un mercato globale. Basti pensare a quanto l’industria dell’auto americana sia integrata con quella canadese e messicana, per capire quali difficoltà potrebbero nascere dall’uscita degli Stati Uniti dal Nafta».

Paul Caucci è coordinatore del Global Union Network, la rete che unisce i sindacati di Fca e Cnh. Paul è nato a Pontecorvo, in provincia di Frosinone, ma si è trasferito nel Michigan nel 1981, ospite del nonno Salvatore e della nonna Margherita – camionista lui e lavapiatti lei – arrivati qui negli anni Cinquanta. Da allora, non se ne è più andato. Nel 1992, è stato assunto come operaio in Chrysler. Il crollo dell’auto si è abbattuto su di lui in due modi. Da operaio. E da sindacalista. «Nel 2007 – racconta Paul – le cose iniziarono a collassare. Ero presidente della Local 869 della Uaw. Gli iscritti precipitarono da un migliaio a 747. Ricordo ancora il numero esatto. Non avevamo più i soldi per pagare l’affitto della sede».

Adesso, l’intera Detroit Area ha trovato un punto di stabilizzazione nella ristrutturazione e nel rilancio dell’industria dell’auto. «Prima della bancarotta del 2009, Chrysler aveva 40mila dipendenti. Con la bancarotta, in 20mila avevano perso il posto di lavoro. Adesso, la Fca di Sergio Marchionne ha, nella nostra area, di nuovo 40mila occupati». Sul tema stabilizzazione-destabilizzazione dell’intero comparto dell’auto americano, esiste naturalmente l’incognita Trump. «Io non ho votato per lui – dice Paul – anche perché per tradizione il sindacato americano, e in particolare quello dell’auto, appoggia alle presidenziali il candidato democratico. In ogni caso, alcune sue istanze colgono nel segno». Le parole di Caucci sono coerenti con la capacità che ha avuto Trump di seminare consenso e di raccogliere voti nell’America della manifattura: «Penso che sia giusto che gli Stati Uniti escano dal Nafta. Abbiamo perso troppo lavoro. Anche se non so che risultato avrebbe una scelta di questo tipo, dato che ci sono attività industriali che da molto tempo, da troppo tempo, non svolgiamo più qui negli Stati Uniti».

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