L’esercizio ha ormai un’ambizione tanto modesta quanto, da lungo tempo, prevedibile: limitare i danni. La Brexit trionfale, quella che prometteva l’alba di una nuova sovranità nazionale libera dai lacci dell’eurocrazia potrebbe essere pubblicamente archiviata venerdì, fra il Ponte Vecchio e piazza della Signoria, dove la signora premier Theresa May omaggerà la very special relationship anglo-toscana con il discorso sullo stato del divorzio fra Londra e Bruxelles.
Il condizionale è imperativo. Lo impone la volubilità che Downing street ha messo in scena dal 23 giugno 2016 ad oggi, lo ordina l’alchimia ad alto tasso ideologico del partito conservatore ancora imprevedibile nella gestione della Brexit. Le aspettative dei più convergono, tuttavia, verso un discorso con toni mansueti, pronunciato da una città che è rappresentazione plastica del rapporto britannico con l’Europa. Sarebbe francamente sorprendente un attacco alla costruzione comune dalle sponde dell’Arno. Se lo augurano, forse, soltanto i conservatori secessionisti duri e puri, i più inclini alla politique politicienne, l’unica in linea con i toni del ministro degli esteri Boris Johnson, autore di un velenoso editoriale che rispolvera anche la promessa fantasiosa di un’iniezione di fondi alla casse del servizio sanitario con quanto Londra immagina potrà essere risparmiato lasciando l’Ue. Uno scenario ridicolizzato dai numeri che, però, è stato nuovamente gettato, come un osso nell’arena, per tenere alta la tensione dello scontro politico.
Evitiamo, questa volta, l’analisi delle convulsioni tories e anche ogni commento sul livello al quale, quelle stesse convulsioni, hanno ridotto il dibattito euro-britannico. Evitiamo anche di immaginare l’inimmaginabile, ovvero, quanto Theresa May dirà sui punti specifici. Ci limitiamo a suggerire che cosa dovrebbe dire se intende davvero raggiungere al vertice d’ottobre l’obiettivo che più si prefigge: portare la discussione con la Commissione alla fase due, verso i temi delle relazioni future fra Londra e i Ventisette.
Per incardinare la trattativa sui rapporti successivi al marzo 2019, Theresa May dovrà riconoscere l’esigenza di un periodo di transizione che consenta di traghettare Londra verso l’assetto futuro. Anni in cui resterà membro del mercato interno e dell’unione doganale, ingoiando se necessario la libera circolazione dei lavoratori e quant’altro sopporta oggi. Tutto uguale dunque? «Theresa May nel marzo del 2019 deve poter dire siamo usciti dall’Unione europea», ha commentato un rappresentante inglese al convegno italo-britannico di Pontignano organizzato da British Council e Ambasciata britannica e presieduto da Enrico Letta e David Willets. L’istinto di sopravvivenza politica, cioè, le impone lo strappo, ma se Bruxelles accetterà, sarà solo formale, forse solo nella denominazione del rapporto transitorio futuro, lasciando oneri e onori analoghi a quelli di oggi. Lo invoca anche Philip Hammond cancelliere dello scacchiere ancorché colomba fra tanti falchi al governo.
La signora premier dovrà, quindi, chiedere un accordo-ponte con l’obiettivo di «cambiare tutto per lasciare tutto come prima». Un Gattopardo rivisitato, tuttavia, dalla presenza di un rotondo assegno britannico che la Commissione vuole sul tavolo subito, prima, comunque, di sancire che sono stati fatti «sufficienti progressi» per passare alla seconda fase negoziale.
Ci riferiamo ai danari che Londra s’è impegnata in passato a versare alle casse comuni e che da Bruxelles quantificano in una sessantina di miliardi di euro, quelli che, in buona sostanza, Boris Johnson vorrebbe girati al servizio sanitario nazionale. L’accordo transitorio porta con sé una giustificazione politica formale al pagamento – tutto o parte - di quanto Bruxelles rivendica: il prezzo per aderire al single market e all’unione doganale dopo il marzo 2019. A Londra circola con insistenza l’ipotesi di 10 miliardi all’anno.
Sono questi i due pilastri minimi – e non necessariamente sufficienti - sui quali si dovrebbe reggere il ramoscello che Londra, da Firenze, crediamo tenderà a Bruxelles.
Se accadrà davvero e se Commissione e Ventisette accetteranno avances del genere, la Brexit si potrà rimettere in moto, mascherata, tuttavia, dalla silhouette di un divorzio soft. Un divorzio diluito nel tempo, scandito da mille gradi di separazione che potrebbero dilatarsi fino al prossimo appuntamento elettorale tracciando scenari – un secondo referendum - che già tante voci sollecitano.
Scenari sui quali varrà la pena esercitarsi se Theresa May dirà davvero quanto “dovrebbe” dire, con – lo ripetiamo - il modesto obiettivo di limitare i danni. Un obiettivo da statista, nel grande caos spalancato dalla Brexit.
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