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Estremismo e vecchi partiti, la Germania somatizza i mali dell’Europa

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Estremismo e vecchi partiti, la Germania somatizza i mali dell’Europa

Una manifestazione di Pegida nel gennaio 2015  a Dresda
Una manifestazione di Pegida nel gennaio 2015 a Dresda

Nell’autunno 2014 un quarantenne a volte vestito da Hitler altre con magliette «Moet & cocaine», invitava a passeggiate notturne gli abitanti di Dresda. A volte sono accorsi in cinquemila, a volte in venticinquemila. Marciavano per l’Occidente e contro gli immigrati soprattutto islamici. Il quarantenne si chiamava Lutz Bachmann, leader dimissionario e poi riammesso dal suo movimento, Pegida, Patrioti europei contro l'islamizzazione dell'Occidente, acronimo che è anche un programma e preannunciava il risultato di ieri. Da più parti si dice ora che AfD, Alternativa per la Germania, partito di estrema destra ora al 13% e al debutto nel prossimo Bundestag, non è Pegida. Non sono così estremisti, si osserva. In effetti questo partito cambia pelle come i leader (la moderata Petry è già in uscita) ma è a Dresda e nella Sassonia che si è radicato.

È da anni che movimenti più disparati ma di estrema destra si agitano in Germania, persino a Berlino, dove nel 2010 René Stadtkewitz, un fuoriuscito della Cdu, partito di Merkel, annunciava la nascita di un nuovo partito, Die Freiheit, La libertà, che avrebbe combattuto fra le altre cose la casta dei politici e l’Islam come ideologia totalitaria. Oggi quel processo è maturato e il mix di xenofobia, negazionismo ed euroscetticismo entra nel Bundestag. La Germania non è l’eccezione ma conferma le pulsioni 2017 di cui il 2016 con Brexit e Donald Trump è stato solo premessa.

COSÌ ALLE ULTIME 6 ELEZIONI IN GERMANIA
La distribuzione del voto tedesco a partire dal 1994

Vecchia Europa, stesso copione
I grandi partiti di centro destra e centro sinistra hanno perso in Germania come prima in Francia, come in un certo senso in Olanda e persino in Gran Bretagna. A Berlino l’Unione Cristiano-democratica (CDU) e i suoi alleati bavaresi della CSU, così come i social democratici (SPD) hanno ottenuto un pessimo risultato. È un copione che abbiamo già visto. Al netto delle variabili nazionali è facile individuare delle costanti. La vecchia Europa ora disunita è unita dalle stesse disgrazie elettorali, la Germania che ne è guida, le riassume tutte.

Il 15 marzo elezioni politiche in Olanda, primo voto-test europeo dopo l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti: gli euroscettici di Wilders crescono ma devono abbandonare l’illusione di essere primo partito e governare alcunché. È il liberal-conservatore Mark Rutte a ottenere la maggioranza relativa, i laburisti crollano. In Germania ieri è accaduta la stessa cosa: e il precedente olandese non è di buon auspicio per la signora Merkel perché, a sette mesi dal voto, Rutte non riesce a formare un governo, ne guida uno ad interim. Sta ancora trattando con liberali progressisti, cristiano-democratici, unione cristiana, insomma anche lì alchimie caraibiche.

Ad aprile alle presidenziali in Francia, ridimensionamento dei gollisti, crollo dei socialisti, i grandi partiti della seconda metà del Novecento stracciati, la rottura ricomposta da un partito nato dal nulla ma di stampo personalistico, La Republique en Marche del presidente Macron, che blocca le ambizioni del Front National di Marine Le Pen. Passata l’estate, l’entusiasmo si spegne: il presidente, contestato per la riforma del lavoro, crolla nei sondaggi. In queste ore con il rinnovo di mezzo Senato, Macron subisce la prima frenata elettorale, avrà molti meno senatori del previsto, quasi la metà.

A giugno in Gran Bretagna come oggi in Germania finisce l’era del partito conservatore stabile al potere - al netto delle inevitabili letture in chiave Brexit. I Tory perdono la maggioranza assoluta e sono costretti a formare un governo di minoranza con gli unionisti nordirlandesi. Al contrario che in Olanda, Francia e ora in Germania però, in Gran Bretagna il grande partito di sinistra del Novecento improvvisamente resuscita, il suo leader Jeremy Corbyn si rafforza (anche se la vittoria, figlia di una protesta cangiante ma ben presente in tutta Europa, non permette ai laburisti di incidere nel cruciale percorso di addio all’Ue dei prossimi tre anni).

La Germania locomotiva invincibile ha somatizzato tutte le debolezze della vecchia Europa, e rischia la malattia comune, l’instabilità. Il primo a pagare, per la terza volta in un anno nel continente, è il partito storico di sinistra, anche se Merkel oggi dice che vuole recuperarlo e non considera conclusa la lunga stagione della Grande coalizione.

Il primo a festeggiare a Berlino è un partito di estrema destra che esulta ora che frontisti francesi, populisti olandesi e Ukip britannico hanno rallentato. Alternativa per la Germania, partito in sigla AfD, raccoglie il 13% dei voti a livello nazionale (cioè un 7,9% in più rispetto alle elezioni 2013), ma raggiunge cifre più alte nella ex Ddr in cui la cancelliera Merkel è nata. Soprattutto l’AfD riesce a mobilitare - dicono le prime analisi dei dati - tedeschi che non andavano più a votare, proprio come Donald Trump ha spinto alle urne gli americani bianchi arrabbiati e stanchi.

COME SI SONO SPOSTATI I VOTI RISPETTO AL 2013
Saldo tra voti guadagnati e voti persi per partito: il confronto con le elezioni del 2013. Milioni di voti (Fonte: Infratest dimap)

L’AfD è cresciuta sulle cicatrici della riunificazione ma anche sulla percezione dell’invasione dei migranti. Percezione di cui da anni si giova la succitata Pegida, e una propaganda che insiste in città come Dresda, che non pullula di migranti e pure oggi incorona il partito che è stato della sua concittadina Frauke Petry.

I più moderati potrebbero considerare positivo il gran ritorno dei liberali della FDP, un + 5,9% rispetto al 2013, l’aumento più consistente fra i piccoli partiti secondo solo al boom dell’AfD. Un partito storico che guadagna più del milione di voti all’AfD perso da democristiani e liberaldemocratici. In piccolo la Fdp tedesca ha svolto la funzione dell’En Marche francese, ha attratto lo scontento che non è sfociato in una scelta antisistema o al limite del sistema. Però i liberali di Christian Lindner, leader quasi coetaneo di Macron, hanno fatto una campagna euroscettica che non fa ben sperare Merkel e l’Uni0ne.

IL VOTO A BERLINO
Le maggioranze distretto per distretto




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