La Catalogna che pretende l'indipendenza è apparsa nelle nostre homepage da meno di un mese. A parte chi si occupa di Spagna o di politica ed Europa o semplicemente presta attenzione alla diffusa voglia di staccarsi da qualcosa in nome della sovranità e della propria idea di nazione - evoluzione del più generico populismo emerso un po' ovunque meno di dieci anni fa – pochi all'estero erano consapevoli di quanto risentimento covasse la spensierata Barcellona. Mentre un processo lungo almeno dieci anni raggiunge un incerto epilogo, sono ancora meno coloro che sulla piazza virtuale deputata a commentare l'attualità che è il social network - Facebook/Twitter - citano Orwell e il suo Omaggio alla Catalogna.
Cos'è un tweet, un post? Poco, qualcosa più di niente. È però curioso che l'onnivora audience online che mastica e sputa qualsiasi cosa a ritmi robotici, citi così poco un simile riferimento. Se qualcuno ricorda un libro del 1938 è sempre un utente di lingua inglese, pochi quasi assenti gli italiani. Forse perché al contrario di 1984 e dell’invenzione del Grande Fratello che è diventato pure un format tv subito invocato per qualsiasi cosa evochi forme di controllo - improvvidamente anche in America quando Kellyanne Conway, consulente del presidente Trump difese la folla all'Inauguration day parlando di «fatti alternativi» - Omaggio alla Catalogna non è così popolare.
Anche perché, forse, solo il titolo può animare chi romanza romantico l’attuale battaglia catalana. Il racconto in trincea di Orwell è invece inutile a qualsiasi propaganda. Soprattutto quella contemporanea che suggerisce una distinzione fra catalani e spagnoli. Ottanta anni fa il signor Eric Blair, in arte Orwell, non constatò alcuna differenza, erano spagnoli, e questo bastava.
«Ogni straniero che ha prestato servizio nella milizia ha passato le prime settimane a imparare ad amare gli spagnoli e essere esasperato da alcune loro caratteristiche. Sul fronte a volte la mia esasperazione ha sfiorato il furore. Gli spagnoli sono bravi in molte cose non certo a fare la guerra. Tutti gli stranieri, senza distinzione, rimangono sgomenti davanti alla loro inefficienza e davanti alla loro irritante mancanza di puntualità».
«In teoria nutro una certa ammirazione per il fatto che gli spagnoli non condividano la nostra nevrosi nordica nei confronti del tempo; sfortunatamente, però, io la condivido in pieno».
Né Orwell alle prese con freddo, piattole, fascisti, lunghi periodi di nulla, «operazioni sempre mal condotte» e «un esercito di ragazzini straccioni», scorse un particolare sentimento religioso in Catalogna e non ad esempio in Aragona.
«La cosa davvero soprendente era la quasi assoluta mancanza di iscrizioni religiose sulle lapidi, anche se datavano tutte da prima della rivoluzione (...). La maggior parte delle iscrizioni erano puramente secolari, con ridicoli panegirici poetici sulle virtù del defunto (...). È curioso come in tutto il periodo che ho trascorso nel paese non abbia mai visto una persona farsi il segno della croce (...). È evidente che la Chiesa spagnola risorgerà (come dice il proverbio, la notte e i gesuiti tornano sempre) ma non c’è dubbio che all’inizio della rivoluzione ha subito un tracollo (...) Per gli spagnoli, almeno quelli in Catalogna e in Aragona, la Chiesa è una vera e propria associazione a delinquere».
In Omaggio alla Catalogna non si riesce a distinguere fra spagnolo e spagnolo neanche per una spiccata anglofilia degli uni e non di altri.
«A onore del carattere degli spagnoli bisogna dire che sono sempre andati molto d’accordo con noi inglesi, nonostante le difficoltà della lingua. Scoprimmo ben presto che tutti gli spagnoli conoscevano due espressioni inglesi: una era «OK, baby» e l’altra era una parola usata dalle puttane di Barcellona nelle loro trattative con i marinai inglesi e temo che i compositori non me la stamperanno».
Francesi, inglesi, ospiti. Orwell riconosce agli spagnoli che accolgono combattenti stranieri una certa onestà intellettuale.
«I francesi erano stati molti più coraggiosi, dicevano, aggiungendo con foga: «Mas valientes que nosotros» «Più coraggiosi di noi!» Naturalmente sollevai qualche dubbio su questa affermazione al che mi spiegarono che i francesi ne sapevano di più dell’arte della guerra - se ne intendevano parecchio di bombe, mitragliatrici e così via. Ma la loro ammirazione era sincera. Un inglese si sarebbe tagliato una mano piuttosto che ammettere una cosa del genere».
I catalani in quanto catalani spuntano quando l’autore si ritrova a combattere con una sezione di andalusi.
«Non so bene come fossero finiti in quella parte del fronte. La spiegazione che circolava era che erano scappati da Màlaga così in fretta che si erano scordati di fermarsi a Valencia; ma questa naturalmente era una voce messa in giro dai catalani i quali non facevano mistero di disprezzare gli andalusi che consideravano dei mezzi selvaggi. E in effetti gli andalusi erano molto ignoranti. Quasi nessuno di loro sapeva leggere e sembravano all’oscuro perfino dell’unica cosa che in Spagna sanno tutti: a quale partito politico appartenessero. Si professavano anarchici, ma non ne erano del tutto sicuri; forse erano comunisti».
Orwell non nasconde il suo stupore quando Barcellona si rivela una città, irriducibilmente e a dispetto di tutto, borghese. Dopo tre mesi al fronte, scopre che «l’atmosfera rivoluzionaria era ormai dissolta».
«Le uniformi della milizia e le tute blu erano quasi sparite; tutti sembravano indossare gli eleganti completi estivi in cui i i sarti spagnoli sono degli specialisti (...) La città aveva subito un profondo cambiamento. La gente - la popolazione civile - aveva perso gran parte dell’interesse nell’andamento della guerra. La normale divisione della società in ricchi e poveri, classe alta e classe bassa, si stava riaffermando. L’indifferenza generale nei confronti della guerra era un dato soprendente e piuttosto nauseante. Per gente che arrivava a Barcellona da Madrid o anche da Valencia era una cosa tremenda. In parte era dovuta alla lontananza fisica di Barcellona dai combattimenti: notai la stessa cosa un mese dopo a Tarragona, dove la vita normale di un’elegante città costiera continuava praticamente indisturbata».
In quella capitale che non visse la guerra con tutto il coinvolgimento che l’ospite inglese si aspettava, Orwell assiste ammirato alla costruzione di due barricate.
«Con l’energia appassionata che gli spagnoli tirano fuori quando hanno finalmente deciso di cominciare qualsiasi genere di lavoro, lunghe file di uomini, donne e perfino bambini si misero a cavare selci dalla strada, caricandoli su un carrettino a mano trovato chissà dove, e a barcollare avanti e indietro portando a spalla pensati sacchetti di sabbia».
La Catalogna del 2017 è una regione che appare chiusa e conclusa in se stessa ma non vuole rinunciare all’Europa. La Catalogna del 1937 e della guerra civile in cui si scontrarono fascisti, comunisti, anarchici e infinite sigle, ospita il mondo che viene a combattere per degli ideali di libertà ed eguaglianza. «Chi se la passava peggio di tutti erano gli italiani e i tedeschi che erano privi di passaporto ed erano in genere ricercati dalle polizie segrete dei loro paesi».
Orwell abbandona presto l’illusione di un buon esito democratico del conflitto, «nessuno con un minimo di cervello poteva sperarlo».
«La tendenza era in direzione di una qualche forma di fascismo. Un fascismo chiamato senza dubbio con un nome più delicato e - dato che qui si tratta di Spagna - più umano e meno efficiente della sua versione tedesca o italiana. Le uniche altre alternative erano o un’infinitamente peggiore dittatura franchista, o la possibilità (sempre presente) che la guerra sarebbe finita con la Spagna divisa da vere e proprie frontiere o perlomeno in zone economiche d’influenza. Da qualsiasi punto la si guardasse, la prospettiva era deprimente».
Ottanta anni dopo fa un certo effetto rileggere questa pagina, ma la storia oggi non è stata ancora scritta, potrebbe finire come un’altra notte che Orwell reporter passa al fronte.
«Le parole d’ordine complicate che l’esercito usava a quell’epoca erano anch’esse una piccola fonte di rischi. Una notte, ricordo, la parola d’ordine era Cataluña-heroica e un giovane contadino con la faccia da luna piena, che si chiamava Jaime Domenech, mi si avvicinò con aria molto perplessa e mi chiese di spiegargliela.
«Heroica - ma che vuol dire, heroica di preciso?»
Gli dissi che voleva dire la stessa cosa di valiente. Poco dopo lui stava arrancando al buio su per la trincea quando una sentinella gli intimò:
«Alto! Cataluña!»
«Valiente!» gridò di rimando Jaime, sicuro di star dicendo la cosa giusta.
Bang!
Per fortuna, la sentinella lo mancò. In questa guerra tutti mancavano sempre tutti gli altri, ogniqualvolta era umanamente possibile».
© Riproduzione riservata