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«Un piano Marshall avrebbe dato alla Russia un futuro europeo»

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intervista a serghej guriev, capo economista della bers

«Un piano Marshall avrebbe dato alla Russia un futuro europeo»

Serghej Guriev, 46 anni, è capo economista per la Bers, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo
Serghej Guriev, 46 anni, è capo economista per la Bers, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo

Abolizione della proprietà privata, pianificazione centralizzata, prezzi fissi: cent’anni fa, la Rivoluzione russa condusse a uno dei più grandi esperimenti della storia economica, esperimento che 75 anni dopo proseguì con lo smantellamento del sistema, convertito al mercato da un giorno all’altro. Abbiamo ripercorso questi cento anni con Serghej Guriev, uno dei più brillanti economisti russi, fuggito dal proprio Paese nel 2013 dopo aver testimoniato in difesa di Mikhail Khodorkovskij, l’oligarca del petrolio all’epoca in carcere, oggi in esilio. Rettore dell’Alta scuola di economia di Mosca dal 2004 al 2013, oggi Guriev è chief economist alla Bers, la Banca europea fondata nel 1991 per aiutare la ricostruzione e lo sviluppo dell’Europa orientale. Per ironia della sorte, anche la Bers è costretta a prendere le distanze dalla Russia, riducendo la propria presenza in seguito alla decisione dei Paesi azionisti di bloccare i nuovi investimenti, a causa delle sanzioni. È l’ultima tappa dell’analisi di Guriev.

In questi giorni viene celebrato il 100° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Che lezioni possiamo trarre dal doppio esperimento economico che la Russia ha attraversato in questi cento anni?

Tra il 1917 e il 1991 un grande esperimento socio-economico in effetti ha dimostrato l’importanza della proprietà privata e della concorrenza (sia economica che politica) per la crescita e lo sviluppo. L’impero russo precedente al 1917 era iniquo e inefficiente, per molti versi. In alcuni campi l’Unione Sovietica ha migliorato le cose, per esempio sul fronte dell’istruzione e della parità tra i sessi. E ha dato anche un contributo cruciale alla sconfitta della Germania nazista. Ma nel complesso, le politiche di Stalin sono riuscite a costruire un sistema politico repressivo: grande terrore all’interno del Paese, aggressione verso i Paesi vicini. Mentre l’economia autoritaria non ha saputo sviluppare innovazione e produttività, e alla fine è andata in bancarotta. Il boom del petrolio, negli anni 70, ha soltanto ritardato il collasso, non è riuscito a evitarlo. Il grande esperimento sovietico ha mostrato che la premessa di base dell’economia è corretta: gli incentivi contano. E sono la proprietà privata, la concorrenza e la libera impresa a produrli.

La transizione post-sovietica in Russia è stata turbolenta, ma per molti aspetti la Russia moderna è “normale”: un Paese di medio reddito con un’economia dominata dallo Stato e con un alto tasso di corruzione, ma non un regime basato su un’ideologia disumana e sulla repressione di massa.

In che modo l’impronta sovietica vive ancora in Russia? C’è un’eredità positiva dell’economia di comando?

Il sistema sovietico aveva qualche aspetto positivo. E tuttavia, senza un regime repressivo e istituzioni economiche inefficienti, la Russia avrebbe ereditato condizioni socio-economiche migliori. Chiunque affermi che per lavorare i russi devono essere repressi, comandati e controllati fa un’affermazione razzista e anti-russa. I russi che lavorano in Occidente si integrano bene nelle società democratiche e nei mercati competitivi. Viceversa, le stesse nazioni divise in sistemi di mercato e di comando - come la Germania o la Corea - hanno dimostrato che il comando e il controllo distruggono la produttività e la prosperità.

Dopo il 1991 è sembrato che la convergenza tra Occidente e Russia fosse inevitabile. Dove ha sbagliato l’Occidente, sul fronte economico?

Credo fermamente che un piano Marshall per la Russia avrebbe reso socialmente meno dolorosi i primi anni della transizione. Avrebbe reso più probabile un futuro europeo per la Russia.

In quei primi dieci anni di vita della nuova Russia, ha provato almeno all’inizio l’illusione che la transizione a un nuovo modello economico potesse avere successo?

Sono stato e resto ottimista sull’idea di un futuro democratico, prospero e pacifico per la Russia.

Dal punto di vista economico, gli anni di Putin vengono divisi in un primo periodo di crescita, trascinata dai prezzi elevati del petrolio, seguiti da recessione e crisi a partire dal 2008. Come giudica l’operato del presidente sul fronte dell’economia?

È difficile non essere d’accordo con l’agenda di riforme economiche promesse durante la campagna elettorale del 2012: possiamo soltanto rimpiangere che queste riforme non siano state realizzate.

Oggi condivide l’ottimismo di Elvira Nabiullina, presidente della Banca centrale russa, secondo cui la recessione ormai è alle spalle?

La recessione è finita, e l’economia russa sta crescendo. Anche se le stime sono in media piuttosto basse: una crescita tra l’1 e il 2% annuo. Non è abbastanza per raggiungere i Paesi dell’Ocse. E questo implica anche che la Cina supererà la Russia nel prossimo futuro, in termini di Pil pro capite. Sostengo fermamente la politica monetaria della Banca centrale russa, che ha abbassato l’inflazione fino al target del 4 per cento.

I prezzi del petrolio si stanno riprendendo un poco, ma il governo russo non sembra ansioso di vedere il rublo rafforzarsi troppo. Qual è secondo lei l’equilibrio giusto?

La Banca centrale fa bene a condurre una politica flessibile sul cambio, consentendo alle forze di mercato - guidate da due fattori, il prezzo del petrolio e i flussi di capitale - di determinare l’andamento del rublo. Il solo tasso di cambio corretto è il tasso di mercato.

Una domanda sulle sanzioni: ormai sembrano date per scontate. Condivide l’opinione di chi sostiene che l’embargo alimentare e le altre restrizioni possono aiutare l’economia russa a modernizzarsi, dovendo imparare a stare in piedi da sola?

Per il momento le sanzioni - e il rischio di altre in arrivo - frenano gli investitori, occidentali e no. E questo naturalmente ha un impatto fortemente negativo sulla crescita economica russa. La speranza che gli investimenti cinesi potessero sostituire quelli occidentali non si è materializzata. Nel complesso, il rapporto investimenti/Pil è ancora pari al 21%, esattamente dov’era nel 2012, quando Putin - appena rieletto - promise di portarlo al 25-27% del Pil.

Lei è stato membro di Sberbank, di cui aveva descritto «l’incredibile trasformazione da istituzione sovietica a compagnia finanziaria dinamica e orientata al cliente».Oggi assistiamo alla crisi di diverse banche russe, che hanno bisogno del sostegno della Banca centrale. Sono casi isolati, o è in gioco la solidità dell’intero sistema bancario russo?

Non posso commentare la stabilità delle singole banche. Ma confermo il mio punto di vista su Sberbank, che si è davvero trasformata - e continua a farlo - oltre ogni aspettativa.

Crede che sarà possibile per lei tornare in Russia, se non nelle circostanze attuali in un futuro non troppo distante?

Per il momento resterò a Londra, dove ho un lavoro appassionante e impegnativo nel top management di una banca dedicata allo sviluppo, e che investe in 37 Paesi.

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