C'è una sorta di potente triumvirato. Ne fanno parte tre Paesi che, prima dell'avvento al potere di Donald Trump, non avevano molto da spartire in materia di politica estera: Arabia Saudita, Stati Uniti e Israele. Ora sono uniti contro l'espansione iraniana. Delusi dall'andamento della guerra in Siria, dove il regime del presidente siriano Bashar al-Assad è rimasto al potere, e i suoi alleati, Iran ed Hezbollah, ne sono usciti rafforzati, Riad, Gerusalemme e Washington sono concordi che gli sciiti libanesi di Hezbollah, nelle liste delle rispettive organizzazioni terroristiche debbano essere fermati, in un modo o nell'altro, prima che sia troppo tardi.
Il Libano: pedina nello scontro tra Iran e Arabia
La vittima predestina di questa intricato terremoto geopolitico è il piccolo Libano. Dopo cinque mesi dal clamoroso embargo contro il Qatar, deciso dall'Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo in funzione anti-iraniana, anche il Libano, che finora era riuscito a non essere risucchiato nella guerra civile siriana, è divenuto una pedina nel sempre più teso confronto tra l'Arabia Saudita, culla dell'Islam sunnita e l'Iran, roccaforte dell'islam sciita, per la leadership regionale. Il disegno perseguito da Riad comincia ad emergere: delegittimare il Libano, creando un vuoto di potere, imputarlo alle ingerenze iraniane, e creare il pretesto per isolarlo. Come? Forse anche con un severo round di sanzioni, fino all'ipotesi estrema; creare il pretesto per una guerra con gli Hezbollah. Che tuttavia i sauditi punterebbero a farla combattere da Israele. « E' chiaro che l'Arabia Saudita ha dichiarato guerra al Libano e agli Hezbollah. Riad ha chiesto a Israele di fare la guerra al Libano»: ha detto il leader degli Hezbollah libanesi, Hassan Nasrallah, parlando, precisando tuttavia che Hezbollah non ha intenzione di attaccare Israele.
I pretesti sauditi per destabilizzare il Libano
Da tempo diverse fonti israeliane ripetono che una nuova guerra contro Hezbollah non è più una questione di se, piuttosto di quando. Le clamorose dimissioni annunciate da Riad dal premier libanese Saad Hariri, sabato, creano tuttavia le fondamenta per un processo di delegittimazione del Libano, un paese che si regge su un delicatissimo equilibrio etnico e confessionale (per le legge il presidente della Repubblica deve essere cristiano, il premier sunnita, il capo del Parlamento sciita) . Accusando l'Iran di pesanti ingerenze e annunciando di temere per la propria vita, Hariri ha usato toni durissimi contro gli Hezbollah. Già da tempo il movimento sciita libanese è il vero potere forte in Libano, politicamente e militarmente.
Il presidente libanese, il cristiano maronita Michel Aoun, ha respinto le dimissioni di Hariri. Hezbollah, ma anche diversi membri del partito sunnita di Hariri sostengono che il loro premier sia costretto contro la sua volontà a restare in Riad. E che le sue dimissioni siano state dettate dalla monarchia saudita. Che non ha esitato a chiamare in causa l'Iran e gli Hezbollah, colpevoli, ai suoi occhi, di aver assemblato e lanciato sabato un missile balistico dallo Yemen, neutralizzato nei cieli sopra Riad. «Tratteremo il governo del Libano come un governo che sta dichiarando guerra a causa delle milizie Hezbollah» ha tuonato lunedì il governo saudita.
Cosa accadrà ora? Possibile che scattino sanzioni, che il Libano possa essere isolato come il Qatar. Possibile perfino che Beirut venga risucchiato nel pantano siriano o che scoppi una nuova guerra in Medio Oriente. Tutti scenari che Europa e Stati Uniti vogliono evitare. Mercoledì il presidente francese Emmanuel Macron è volato a Riad per cercare di trovare una soluzione alla crisi. Anche il Segretario di Stato americano Rex Tillerson si è discostato dalla linea di Riad dichiarando con forza che Hariri è il solo premier riconosciuto del Libano e definendolo un “forte partner degli Stati Uniti” Poi ha rivolto una stoccata ad Iran ed Hezbollah: “Non c'è alcun posto o ruolo legittimo in Libano per qualsiasi forza, milizia straniera o milizie al di fuori delle forze nazionali libanesi”.
Da una precaria stabilità a una crisi economica
Per il piccolo Libano, l'ultima escalation è una doccia fredda. Nemmeno un mese fa il Parlamento di Beirut era riuscito ad approvare il bilancio del 2017 presentato dal Governo in marzo. Non accadeva dal 2005, l'annus horribilis, quando l'ex premier sunnita Rafiq Hariri, padre di Saad, venne assassinato – le accuse caddero sui siriani e sugli Hezbollah - a Beirut facendo precipitare il Paese in una difficilissima crisi politica. L'approvazione del bilancio è un passo vitale per riformare la fragile economia libanese, impedire che l'ingombrante debito del Paese vada fuori controllo, e agevoli i prestiti sovvenzionati dalla Banca mondiale o da altri investitori. La crisi tra Arabia Saudita e Iran, le dimissioni di Hariri, l'ordine ai propri cittadini residenti in Libano di lasciare immediatamente il Paese chiesto da Arabia, Kuwait, Emirati Arabia e Bahrein, rischiano di ripercuotersi seriamente sulla fragile economia libanese. Il Libano è innaffiato dai petro-dollari delle monarchie del Golfo, che spesso scelgono le sue banche per i loro depositi in valuta pregiata. Non è escluso ora che possano ritirararli.
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