«Preoccupato» per quella che potrebbe essere una decisione capace di incendiare l’intero mondo musulmano, il presidente francese Emmanuel Macron ha rotto gli indugi. In una telefonata con il presidente americano Donald Trump , Macron ha dichiarato; «La questione dello status di Gerusalemme deve avere soluzione nell'ambito dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi».
Poco più tardi si è aggiunta la voce del ministro degli Esteri e vicepremier belga Didier Reynders: «Come sapete l’Ue chiede una soluzione a due Stati.
Bisogna evitare qualsiasi provocazione, da qualsiasi parte
questa arrivi. Bisogna che tutti stiano attenti». Sempre da Bruxelles ha infine preso parola l’Alto rappresentante dell’Unione Europea, Federica Mogherini,
dopo la bilaterale col segretario di stato Usa Rex Tillerson «L’Ue sostiene la ripresa di un significativo processo di pace verso la soluzione dei due
Stati - ha detto la Mogherini - Qualsiasi azione che possa minare questi sforzi deve essere assolutamente evitata».
La vicenda ormai è conosciuta. In campagna elettorale Trump aveva promesso di voler spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv e di dichiarare unilateralmente Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele. In teoria lunedì la Casa Bianca doveva decidere se firmare il rinnovo della deroga che permette di mantenere a Tel-Aviv la rappresentanza diplomatica statunitense (tutti i Paesi mantengono le ambasciate a Tel Aviv) . Cosa che avviene regolarmente da due decenni. Ma la decisione è stata rinviata.
Non è molto chiaro, tuttavia, se Trump intenda dichiarare tutta Gerusalemme capitale di Israele, come pareva durante la campagna elettorale, oppure solo la parte occidentale.
Non è una questione di lana caprina. I palestinesi rivendicano da tempo Gerusalemme Est come capitale di quel futuro Stato palestinese che in teoria dovrebbe rappresentare un felice epilogo del processo di pace. Ma se per il Governo israeliano Gerusalemme è la capitale una e indivisibile, per i palestinesi, come per gran parte della comunità internazionale le cose stanno diversamente.
Forse la decisione di Trump su uno delle questioni più controverse e delicate del mondo non sarà questione di giorni, come hanno fatto intendere alcuni membri dello staff dell’Amministrazione Trump. Ma le parole del vice portavoce della Casa Bianca, Hogan Gidley - vale a dire lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme «non è questione di se, ma di quando» - stanno scatenando dure reazioni in tutto il mondo arabo e in buona parte di quello musulmano.
A cominciare dal Segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, il quale ha invitato Trump a «evitare qualsiasi iniziativa capace di mutare lo status giuridico e politico di Gerusalemme», sottolineando «la minaccia
rappresentata da un tale passo per la stabilità della regione».
Ancora più dura la reazione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il quale ha evidenziato come l’eventuale riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele rappresenta «una linea rossa per i musulmani», che potrebbe portare alla rottura delle relazioni diplomatiche della Turchia con Israele. Erdogan ha poi parlato di possibili risposte politiche e diplomatiche. Anche l’alleato arabo più vicino agli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, non ha potuto evitare di esprimere «seria e profonda preoccupazione» per un eventuale riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte degli Stati Uniti: una mossa che «irriterebbe i sentimenti dei musulmani nel mondo», ha sottolineato il ministero degli Esteri di Riad.
Gerusalemme. La Città Santa, la Città contesa, rivendicata dai palestinesi come capitale del loro futuro Stato, «una e indivisibile» per gli israeliani . Gerusalemme: fonte di perenni disaccordi, di processi di pace falliti, di ambizioni frustrate per tutti quei presidenti americani che ambivano a passare alla storia come gli artefici di una soluzione duratura e finale nel conflitto israelo-palestinese capace di portare alla creazione di due Stati, uno accanto all'altro, con confini permanenti.
Là dove i suoi predecessori hanno fallito l'ambizioso presidente Donald Trump vuole riuscirci. A suo modo. Il primo passo, tanto grande quanto avventato, potrebbe essere il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. Annuncio storico, che secondo indiscrezioni americane, potrebbe avvenire molto presto. Una volta compiuto questo storico passo, dovrebbe seguire il trasferimento dell'ambasciata .
Una decisione capace di incendiare il mondo arabo
Trump lo aveva promesso in campagna elettorale. Ma la questione è talmente controversa che – se alle intenzioni seguiranno davvero i fatti - le conseguenze, probabilmente, non si faranno attendere a lungo. Una decisione simile rischia infatti di ridisegnare tutti quegli equilibri politici che la Casa Bianca, in modo peraltro non molto ordinato, ha cercato di creare nel martoriato Medio Oriente. Dalla Siria all'Iraq, passando per un Libano ancora instabile, il mondo arabo sta vivendo uno dei periodi più drammatici dell'ultimo secolo.
Con l'eccezione di Egitto e Giordania, il cui trattato di pace con Israele è ancora in vigore, tutti gli altri paesi arabi non riconoscono Israele come Stato. La decisione di Trump, sempre che non faccia marcia indietro, rischia così di essere interpretata come una provocazione inaccettabile dai paesi arabi che sostengono la causa palestinese, ma anche da gran parte dei Paesi della comunità internazionale, le cui ambasciate si trovano a Tel Aviv proprio per evitare di impantanarsi in una questione tanto delicata quanto esplosiva.
I palestinesi: un passo inaccettabile
Appena circolata la notizia, le reazioni non si sono fatte attendere. Domenica il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha subito fatto sentire la sua voce: «Qualsiasi passo degli americani relativo al riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, o anche lo spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, rappresenta una minaccia per il futuro del processo di pace e sarebbe inaccettabile per i palestinesi, gli arabi e per il mondo intero».
Lo Status di Gerusalemme
Lo status di Gerusalemme è apparso spesso come un ostacolo insormontabile. L'importanza simbolica della città per le tre grandi religioni monoteiste rende ardua la ricerca di una soluzione per la Città Santa, la cui parte orientale, che include il muro del pianto ma anche la spianata delle moschee, o Monte del Tempio, (su cui si ergono luoghi sacri per i musulmani come la Cupola della Roccia e la moschea di al Aqsa), fu conquistata dalle truppe israeliane durante la guerra dei Sei giorni, nel giugno del 1967. Ancora oggi la maggior parte dei paesi membri delle Nazioni Unite e moltissime organizzazioni internazionali non riconoscono ad Israele l'annessione di Gerusalemme Est, né riconoscono Gerusalemme come capitale. Per questo motivo la maggior parte delle ambasciate estere in Israele hanno come sede Tel Aviv.
I tre nodi insolubili
Un piano di pace duraturo, che prevede uno Stato palestinese, accanto ad uno Israeliano, si è sempre scontrato con tre questioni di difficilissima soluzione: i confini, che i Palestinesi pretendono siano riportati indietro alla linea verde (quelli precedenti alla guerra del 1967) , il controverso diritto di ritorno dei rifugiati palestinesi (ormai milioni sparsi nei campi profughi di Giordania, Libano e Siria), e la questione di Gerusalemme. Per i primi due punti le due parti avevano più volte provato a identificare delle soluzioni alternative, che tuttavia non cambiassero drasticamente le rivendicazioni.
La linea verde, le colonie e la disputa sui confini
Per esempio, sui confini, la costruzione di insediamenti israeliani non rendeva praticabile il ritorno ai confini del 1967. Nel processo di pace è verosimile che i grandi blocchi di insediamenti - Ariel, Gush Etzion, e Ma'ale Adumim - siano annessi a Israele. Evacuare queste città sarebbe cosa quasi impossibili oltreché proibitiva da un punto di vista finanziario. Senza contare che dopo la guerra dei Sei giorni gli insediamenti in Cisgiordania sono andati crescendo anno dopo anno. Quasi tutti i premier israeliani hanno proseguito l'espansione. Fino alla situazione di oggi: con oltre 470mila ebrei al di là della linea verde distribuiti tra Gerusalemme Est (almeno 180mila) e la Cisgiordania (quasi 300mila), un territorio dove vivono quasi tre milioni di palestinesi.
Anche smantellare solo la città di Ariel (70mila abitanti), che si infila come un cuneo in Cisgiordania, sarebbe a dir poco problematico, se non irrealistico. Se si considera quanto è costato - in termini economici e sociali - lo smantellamento delle colonie della Striscia di Gaza e l'evacuazione di soli 8mila coloni, portato avanti dal premier Ariel Sharon nel 2005, si comprende la complessità della questione.
Gran parte della Comunità internazionale, tuttavia, non riconosce la legittimità delle colonie in Cisgiordania, così come le alture del Golan, conquistate dalla Siria nel 1967 e annesse nel 1981, e Gerusalemme Est, anche in questo caso annessa da Israele. L'espansione degli insediamenti - si lamenta da tempo la leadership palestinese, -ha trasformato la Cisgiordania in un territorio a macchia di leopardo, rendendo impraticabile la creazione di un futuro stato palestinese. Una delle soluzioni dibattute in passato sarebbe quella di una correzione geografica; attraverso una compensazione territoriale ai palestinesi, che potrebbe avere in cambio altre terre. Ma quali? E dove? La loro individuazione non è facile.
Il diritto al ritorno dei rifugiati
Quanto al diritto di ritorno nei luoghi di origine (quindi anche in molte città e villaggi israeliani) dei rifugiati palestinesi, e dei loro discendenti, l'Autorità nazionale palestinese è consapevole che provocherebbe un terremoto demografico nello Stato di Israele, la cui maggioranza rischierebbe di divenire araba. Per quanto ufficialmente parte dei palestinesi insistano su questo punto, un compromesso - non ufficiale - era già nell'aria da tempo.
A quale Gerusalemme allude Trump?
Su Gerusalemme Est, i palestinesi non sembrano invece disposti a negoziare. Il problema è che anche il Governo israeliano non vuole compromessi. Gerusalemme - precisano i ministri del Governo del premier Benjamin Netanyahu - è la capitale di Israele: non vi sono Est e Ovest».
Il piano di Trump appare dunque sin da subito approssimativo. Anche perché in questioni così delicate, il diavolo si nasconde nei dettagli. Il Capo della Casa Bianca avrebbe fatto riferimento all'intenzione – parole finora solo allusive - di riconoscere Gerusalemme Est come capitale di un prossimo venturo Stato di Palestina. Stato che scaturirebbe da quello che l'amministrazione Trump ha definito un “accordo definitivo” tra i due contraenti.
Oltre a Jared Kushner, cognato-consigliere di Trump, a lavorare da mesi su questo delicatissimo dossier è anche l'inviato speciale del presidente, Jason Greenblat. Lui ha cercato di tessere in questi mesi la tela diplomatica necessaria per predisporre il Medio Oriente alla svolta. Ma al di là del patto di alleanza tra sauditi e americani, dello scorso giugno, in funzione anti-iraniana, il Medio Oriente è davvero pronto per questa svolta?
I sauditi ancora una volta vicini a Trump
Lo staff di Trump sta premendo sui sauditi affinché medino e trovino una soluzione accettabile. Indiscrezioni circolate negli scorsi giorni, indicano un viaggio del presidente palestinese Abbas a Riad per un incontro con l'erede al trono saudita, il potente principe Mohammed Bin Salamn. L'uomo forte dell'Arabia condivide con Israele una grande ostilità verso l'Iran, considerata da entrambi i Paesi come la minaccia più pericolosa. Secondo media europei ed arabi, il presidente palestinese avrebbe accennato alla proposta saudita (smentita però da Riad), che potrebbe caldeggiare una soluzione che i palestinesi difficilmente accetterebbero. In sostanza l'Autorità nazionale palestinese vedrebbe riconosciuto uno suo Stato, ma sembra non con parti della Cisgiordania confinanti con Israele, e forse solo una sovranità limitata sul suo territorio. La maggior parte degli insediamenti israeliani resterebbe così come è oggi. Infine l'ultima tegola per Abbas: i palestinesi dovrebbero rinunciare a Gerusalemme Est e al diritto di ritorno dei rifugiati. Una mera provocazione per i palestinesi. Ecco perché la stessa Casa Bianca domenica ha negato l'esistenza di questo, precisando che ci vorranno mesi prima di finalizzare un accordo di pace.
Ma una questione non risulta chiara. Quando parla di Gerusalemme come capitale dello Stato israeliano, Trump intende solo la parte occidentale o anche quella orientale? La differenza non è da poco. Le potenziali conseguenze pure.
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