New York - Donald Trump ha annunciato la sua grande “svolta” su uno dei più intrattabili drammi della politica internazionale. Ha strappato 70 anni di tradizione diplomatica americana e riconosciuto Gerusalemme quale capitale dello Stato d'Israele, avviando il trasloco nella città contesa dell'ambasciata statunitense. Una mossa unilaterale, dalle ramificazioni incerte: mette in dubbio la credibilità di Washington come arbitro imparziale in Medio Oriente, getta nello scompiglio futuri sforzi di pace tra israeliani e palestinesi e solleva pesanti interrogativi sulla stabilità della regione.
Parlando dalla Diplomatic Reception Room della Casa Bianca, affiancato dal vicepresidente Mike Pence subito in partenza per il Medio Oriente, Trump ha condannato le «fallite strategie del passato», affermando che «vecchi problemi oggi richiedono nuovi approcci». E nuovo, ha detto, è il suo: «È il momento di riconoscere ufficialmente la realtà. Gerusalemme è la capitale di Israele. È la sede del governo israeliano, del Parlamento, della Corte Suprema. Ed è il cuore d'una delle democrazie di maggior successo al mondo».
Trump ha però aggiunto che «non intende abbandonare il profondo impegno statunitense a favore di un accordo di pace tra le parti». E che, nonostante la sua scelta sembri minarla, continua a «sostenere una soluzione sulla base di due stati» e una Gerusalemme sacra per tutte le grandi religioni monoteiste. Il Presidente ha detto che «ci saranno polemiche ma arriveremo a un accordo» e ha fatto appello affinché «prevalgano calma e moderazione».
La Casa Bianca, in concreto, ha ordinato al Dipartimento di Stato di iniziare la costruzione di una nuova ambasciata a Gerusalemme che diventi un «tributo alla pace», progetto che richiederà almeno tre anni. Le reazioni molto preoccupate, lo shock e le denunce da tutto il mondo - da alleati, avversari e anche da veterani politici statunitensi - non sono però tardate.
I vertici Onu hanno ribadito che l'unica soluzione è quella di due stati. Il Segretario di Stato Rex Tillerson, seppur esautorato sul Medio Oriente dal genero-consigliere del Presidente Jared Kushner, è stato costretto a difendere lo “strappo” durante gelidi incontri alla Nato. «Crediamo ci siano buone opportunità di raggiungere la pace». Il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson ha però invitato Washington a presentare subito una strategia mediorientale finora latitante. «Un grave errore» è stata la reazione turca. Allarme ha espresso la Ue con Federica Mogherini. Condanne sono giunte dalla Francia come dalla Cina. Papa Francesco ha mostrato «profonda preoccupazione».
E critiche sono piovute da paesi arabi filo-occidentali quali Giordania e Arabia Saudita. Sul terreno si temono nuove ondate di violenze: i palestinesi a Gaza hanno bruciato foto di Trump e bandiere americane in strada e i leader minacciato rotture di ogni cooperazione con Washington e Tel Aviv. L'Iran ha alzato il tiro inveendo contro un affronto all'Islam. I leader israeliani hanno mantenuto un basso profilo preparandosi a escalation della tensione.
L'azzardato “calcolo” di Trump sembra contenere fattori sia di politica interna che estera. Risponde alla sua base più fedele e radicale, perché è con questa che governa: ultra-conservatori e correnti religiose erano insofferenti a rinvii su Gerusalemme, una promessa elettorale.
L'equazione di politica estera è più avventurosa, o irresponsabile: Gerusalemme rimuoverebbe una “distrazione” e genererebbe pressioni sui palestinesi perché scendano a patti. Mentre dietro le quinte nella regione avanzerebbe una mutata dinamica che supera precedenti ostacoli e favorisce l'agenda americana: un “asse” anti-Iran capace di avvicinare gli interessi di influenti paesi nell'area quali Arabia Saudita, Egitto e Israele
© Riproduzione riservata