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La Danimarca si ribella ai populisti e torna ad attrarre lavoratori stranieri

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la svolta del governo

La Danimarca si ribella ai populisti e torna ad attrarre lavoratori stranieri

COPENAGHEN - Fino a qualche anno fa, parlare di Danimarca significava imbattersi in uno slogan turistico cavalcato (anche) dalla birra Calsberg: the happiest nation in the world, la nazione più felice al mondo. Oggi lo spot è rimasto, ma il clima è un po' cambiato. Dal 2015, con l'exploit elettorale dell'ultradestra, il governo conservatore guidato dal primo ministro Lars Løkke Rasmussen si è trovato costretto a dipendere dai voti del Dansk Folkeparti: il partito del popolo danese, arrivato al 21% dei consensi e capace di influenzare la linea della maggioranza sull'immigrazione con i suoi 37 seggi (su 179) nel parlamento di Copenaghen.

Nell'arco di un biennio la «nazione più felice al mondo» è arrivata così a modificare 67 volte le leggi sugli ingressi, facendo crollare le richieste di asilo dalle 21.316 del 2015 alle 3.458 dell'anno scorso. L'84% in meno. Ma la stretta ha finito per sbarrare la strada anche all'afflusso di professionisti qualificati dall'estero, linfa di un'economia dove il tasso di occupazione si è mantenuto vitale grazie al ricambio di profili «high skilled» dai mercati europei. E oltre. Nel 2017, secondo dati della confederazione di industriali Dansk Industri, si è raggiunto per la prima volta il picco di 200mila dipendenti stranieri assunti a tempo pieno: l'equivalente del 10% della forza lavoro complessiva, con il contributo di 4.595 italiani. Ora il cambio di rotta ha cambiato la percezione del Paese e fa temere strascichi sulla crescita dell'economia nel suo complesso. La Camere di commercio locali, a quanto riferisce l'agenzia Bloomberg, sono preoccupate da un rallentamento del Pil, già in rialzo nel 2016 di poco più dell'1 per cento.

La svolta del governo: linea rossa fra noi e i populisti
Ma qualcosa è iniziato a cambiare, almeno dal punto di vista politico. A inizio gennaio il ministro del Lavoro Troels Lund Poulsen ha lanciato un appello per «facilitare l'ingresso di lavoratori qualificati» nel Paese, rispondendo indirettamente alle imprese e al «vitale bisogno» di professionisti stranieri da inserire in ruoli lavorativi rimasti scoperti. Poco più tardi è stato lo stesso premier Rasmussen a sbilanciarsi, ridimensionando la maxi-riforma fiscale annunciata fino ai primi dell'anno pur di evitare i diktat dei populisti. Il Dansk Folkeparti chiedeva una stretta sugli ingressi in cambio dei voti necessari a far passare la versione completa della legge, concentrata sul taglio delle aliquote ai ceti medi e bassi della popolazione. Rasmussen ha risposto in maniera negativa, accontentandosi di una riforma che regalerà del «sollievo fiscale» solo alle fasce più deboli della popolazione. La Danimarca è classificata dall'Ocse come uno dei Paesi con il carico fiscale più elevato al mondo (il Pil dipende al 45,9% da tasse): il testacoda sulla riforma ha incrinato la popolarità di Rasmussen tra alleati ed elettori, ma è stato salutato positivamente dalla stampa locale come una «linea di demarcazione» rispetto al pressing dei populisti. Forse insufficiente a restare in pista per le prossime elezioni, attese per il 2019.

Ingegneri e tecnici cercansi. Dall'estero
L'emergenza, più che politica, è economica. Le aziende danesi lamentano già oggi una carenza di 4mila ingegneri e vorrebbero attingere dal mercato internazionale senza le rigidità che si sono sedimentate negli ultimi anni di governo. Anche perché il gap potrebbe allargarsi almeno del doppio, secondo le stime prodotte dai datori di lavoro sul proprio fabbisogno di organico. Engineer the future, un'organizzazione danese che promuove la formazione di settore nel Paese, stima una carenza di 10mila ingegneri entro il 2025. «Le porte sono aperte per i talenti internazionali» ha dichiarato Rasmussen, lasciando intendere che il vuoto di profili adatti potrebbe essere risolto con il ”vecchio” metodo: l'attrazione di laureati e neoprofessionisti con curricula internazionali. Un modello che aveva funzionato, nella “nazione più felice” del mondo, o almeno d’Europa.

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