Per laurearsi in industrial design non è necessario affidarsi alle accademie internazionali. Basta iscriversi al Politecnico di Bari, una delle 56 università italiane a offrire corsi di laurea triennale e magistrale impartiti in lingua inglese. Il programma, che si chiama effettivamente così, rientra nei 339 programmi conteggiati dal portale Universitaly su scala italiana. La lista è tornata a far parlare di sé dopo che il Consiglio di Stato ha confermato una sentenza del Tar del 2013, dando ragione ai docenti del Politecnico di Milano che si erano opposti all’imposizione dell’inglese come lingua unica per lauree magistrali e dottorati dal 2014 in poi.
I programmi in inglese avviati dai nostri atenei, diventati bilingui e in alcuni casi trilingui, spaziano dalla Freie Universität Bozen (ad esempio la magistrale in Software engineering) all’Università di Catania, che offre bienni di specializzazione in discipline come Automation engineering and control of complex systems (Ingegneria dell'automazione e del controllo dei sistemi complessi) ed eletrical engineering (Ingegneria elettrica). Il totale dei corsi, cresciuto negli ultimi anni, si muove su numeri diversi rispetto al resto d’Europa. In Germania e in Olanda, per citare un paio di paesi, i corsi English taught superano le 1000 unità, dividendosi tra l’equivalente delle nostre lauree triennali (bachelor’s) e magistrali (master).
Dalla Francia alla Germania, quanti sono i corsi “inglesi” in Europa
Per iniziare dalla Germania, il portale britannico The complete university guide parla di «oltre 800 corsi» in inglese erogati a livello universitario. La Daad (Deutscher Akademischer Austauschdiens), un’organizzazione che si occupa di cooperazione accademica, alza la stima a un totale di 1.263 corsi, fra lauree triennali e specializzazioni biennali. Includendo anche i dottorati, la cifa salirebbe a 1.569. Nella Francia delle grandi Ecole, l’apertura internazionale di alcuni atenei ha scavalcato la ritrosia a offrire corsi in inglese. Oggi, sempre secondo The complete university guide, si registrano 450 programmi, sbilanciati sulla formazione magistrale: le lauree triennali rappresentano una nicchia di appena 33 programmi. In proporzione una delle densità maggiori di corsi English taught si rileva nei Paesi Bassi, dove alcuni report stimano che circa il 90% della popolazione padroneggi più o meno bene l’inglese. Gli istituti olandesi propongono almeno 1.500 corsi insegnati del tutto in lingua. Circa quanti la Germania, ma in un paese con 65 milioni di cittadini in meno e un’estensione che ricorda quella di Veneto e Lombardia messi insieme.
Il presidente della Crusca: il problema sono gli eccessi, non l’inglese
L’Accademia della Crusca, l’istituto fiorentino che racc0glie filologi e linguisti italiani, aveva sposato la battaglia dei docenti del Politecnico e ora plaude alla «doppia conferma» arrivata dal Consiglio di Stato. L’accademia è consapevole della diffusione dell’inglese anche in sistemi strutturati, come quello francese e tedesco, ma sottolinea che «il problema non è nell’uso della lingua, quanto negli eccessi che ne possono derivare». In altre parole, il rischio è che la scelta dell’inglese diventi più una “vetrina” per ragioni di immagine che una scelta maturata nel rispetto dell’efficienza didattica. «Nessuno nega l’utilità dell’inglese in determinate branche. Altra cosa è cancellare integralmente la lingua italiana, e magari farlo passare come un merito burocratico» spiega al Sole 24 Ore Claudio Marazzini, linguista e presidente dell’Accademia della Crusca.
Tra gli esempi di Marazzini ci sono proprio Germania, Francia e Paesi Bassi, anche se per motivi diversi. In Germania e Francia il bilinguismo accademico si è avviato con «un confronto intelligente», e senza accette improvvise sulla lingua originale. Nei Paesi Bassi, complice l’attrattiva geografica per gli studenti inglesi, si è optato per una «politica linguistica» che va comunque rapportata alle dimensioni (piccole) del paese e della sua economia. In entrambi i casi, Marazzini auspica un dialogo che tenga in conto l’aspetto più cruciale della questione: il linguaggio della didattica e le sue conseguenze sociali. «La lingua della didattica dovrebbe essere a metà via fra la ricerca e la divulgazione - dice - Se non non divulghiamo in italiano, molti giovani non riusciranno più a pensare in italiano. Anche nelle scienze».
Il rettore della Bocconi: la lingua è uno strumento, sono i corsi a essere internazionali
Il tema della didattica in inglese non è esattamente un tabù in via Sarfatti, alla sede dell’Università Bocconi. L’ateneo milanese offre in lingua già il 50% dei corsi triennali e magistrali, anche se nel dipartimento di giurisprudenza resiste solo l’italiano. «L’inglese è ovviamente uno strumento per rivolgersi a un “mercato” di studenti internazionali - dice al Sole 24 Ore Gianmario Verona, rettore della Bocconi - Detto questo, se ci si limita a tradurre un corso non ha senso: internazionalizzare significa trasferire competenze, non parlare una lingua diversa». Secondo Verona, però, vale anche il ragionamento opposto. In alcuni settori, la lingua non è l’unico veicolo di «identità culturale» che deve essere contemplato in fase di insegnamento: «Il tema della identità culturale può anche essere concepito diversamente, soprattutto nell’imprenditoria - spiega - Prendiamo il caso dei corsi sulla moda o il design: si possono fare in inglese, ma trasmettono un valore del tutto italiano».
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