«Il silenzio internazionale ci fa male. Ci sentiamo abbandonati dal mondo. Ma sarebbe davvero grave sottovalutare questa aggressione. Noi comunque non ci arrederemo». Non c'è un momento di esitazione nella voce di Nasrin Abdallah. Il comandante delle unità di protezione popolari (Ypj) - le ormai famose combattenti curde – preferisce riportare l’attenzione sul disinteresse mostrato dalla comunità internazionale e sul pericolo che i movimenti estremisti islamici approfittino del momento per rafforzarsi. Ma che cosa sta accadendo ad Afrin, questa piccola enclave della Siria nordoccidentale governata dai curdi siriani contro cui la Turchia ha scatenato un'offensiva militare?
Il presidente turco, Yecep Tayyp Erdogan, parla di mille «terroristi» neutralizzati. Così Ankara definisce le milizie curde dello Ypg ( e quelle femminili dello Ypj), precisando che l'esercito è alle porte della città di Afrin. Ma in questa guerra, dove l'accesso a media indipendenti è impedito, e la propaganda sta sviando le informazioni, è davvero difficile comprendere l'andamento del conflitto. «Sono ormai 18 giorni che stanno bombardando Afrin con l'aviazione e con l'artiglieria pesante. Ma la città è ancora in mano ai civili – ci spiega Nasrin -. Contemporaneamente stanno utilizzando le milizie al-Nasr (affiliati ad al-Qaeda, ndr) e jihadisti vicini anche all’Isis per portare avanti la battaglia di terra. Ma le abbiamo respinte. I turchi fanno propaganda. Sostengono di aver ucciso 900 nostri combattenti ma è falso. Il bilancio delle nostre perdite è molto contenuto».
Se la versione del comandante Nasrin difende gli interessi di una parte del conflitto, quella turca è comunque sempre la stessa: le Ypg (e le Ypj) sono la longa manus del Pkk, il movimento separatista che agisce in Turchia, incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche di Stati Uniti, Israele e Unione Europea. Sarebbero in sostanza la stessa cosa. Ma è una visione che non coincide con quella della comunità internazionale. Erdogan è determinato a ricorrere a qualsiasi mezzo per spazzarle via da Afrin e dal resto dei territori curdi siriani. Agli occhi di Ankara uno pseudo Stato curdo siriano potrebbe riaccendere l'irredentismo dei miliziani del Pkk in territorio turco. Nasrin respinge con fermezza questo scenario. «Ma quale Stato curdo? Ma di cosa ci accusano? Noi non abbiamo chiesto un Kurdistan indipendente. E non intendiamo certo cacciare i cittadini turchi dai territori che governiamo insieme alle altre etnie, tra cui arabi e armeni. Nella nostre forze di difesa combattono anche loro. Stiamo semplicemente chiedendo che vengano rispettati i confini della Siria. Quella Siria l’avete creata voi. Non vogliamo far parte della Turchia».
Che il dopo Isis potesse aprire un vaso di Pandora, spingendo le potenze regionali a contendersi le spoglie della Siria, era già stato ipotizzato da tempo. Ma ora è un pericolo che si sta concretizzando. «Erdogan – sottolinea la comandante curda - ha una mentalità da sultano. Ritiene che l’impero ottomano sia ancora in piedi e vorrebbe espanderlo. Per esempio conquistando Afrin o una parte della Siria. E utilizza tutti gli strumenti a sua disposizione per portare avanti questo disegno. Ricorrendo anche agli estremisti. Ma l’Europa è consapevole di tutto il potere che quest'uomo sta accumulando? Si rende conto della gravità?».
L'esito della battaglia sembra lasciare poche speranze. Le forze in campo sono sproporzionate. Nasrin ne è consapevole. «L'esercito turco conta quasi un milione di soldati. Possiede le armi più sofisticate in circolazione. Utilizza la Nato per avere le informazioni e dispone dei sistemi satellitari. Noi non abbiamo nulla di ciò. Ma crediamo nelle nostre capacità e nella nostra determinazione, che loro non hanno. Finora li abbiamo sconfitti. Non sono riusciti ad avanzare».
Quando la conversazione cade sul disinteresse mostrato da Stati Uniti ed Europa la voce di Nasrin si fa più cupa. D'altronde le milizie che si sono dimostrate più organizzate ed efficienti nella guerra contro l'Isis sono state proprio state le Ypg e le Ypj. Consapevoli della loro fedeltà, gli Stati Uniti le hanno addestrate e armate all'interno delle Syrian democratic Forces (Sdf), una coalizione multietnica di cui i combattenti curdi costituiscono la spina dorsale. E le Ypg hanno ripagato Washington sul campo, conquistando anche Raqqa, la «capitale» dello Stato islamico.
«Abbiamo combattuto contro l'Isis insieme alla coalizione internazionale. Ma attenzione! L'estremismo islamico non è finito. Afrin ne è la testimonianza. Sono loro che stanno cercando di combatterci sul terreno. I turchi ad Afrin non sono arrivati. Se la coalizione internazionale voleva realmente sconfiggere l'Isis e i movimenti qaedisti come mai qua non partecipa? Vogliamo lasciare questa città curda nelle mani degli estremisti? E questo sarebbe l'accordo?».
Anche il comportamento della Russia suona ambiguo. Prima sostenevano i curdi siriani. E ora Mosca, che controlla lo spazio aereo su Afrin, ha permesso all’aviazione turca di bombardarla. «I russi si sono comportati come il resto della coalizione, lasciando libera Afrin nelle mani di un altro Stato per attaccarci- spiega il comandante Abdallah - Nessuno vuole realmente risolvere la situazione siriana. Vogliono creare altri problemi anziché risolverli. Non lo permetteremo. Dimentichiamoci per un minuto della parola Turchia. La Turchia fa parte della Nato, è il suo secondo esercito. E allora ci chiediamo: ma da che parte sta la Nato? Quest'aggressione è grave, è un pericolo anche per voi. Non lo state prendendo sul serio».
Nasrin non usa frasi retoriche. Probabilmente non le ha usate neanche quando è stata ricevuta all'Eliseo dal presidente francese Francois Hollande, nel 2015, dopo la vittoria contro l'Isis a Kobane. Sul campo le unità femminili hanno mostrato un coraggio e una determinazione pari a quella dei colleghi uomini. Molte di loro sono morte combattendo nel 2015 per difendere Kobane dall'Isis. Altre sono cadute in questi giorni per difendere Afrin. Sono sempre in prima linea.
«Abbiamo deciso di creare una forza militare per difendere la nostra comunità. Non certo per fare notizia con un battaglione di donne. Difendere il nostro popolo è un diritto anche delle donne, come lo è per gli uomini. Combattiamo questa battaglia non solo per noi ma per tutte le donne del mondo».
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