Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, arrivato poco dopo le 19 di domenica a Fiumicino, incontra oggi il Papa in Vaticano. Francesco chiede la pace e per questo chiama i fedeli al digiuno e alla preghiera il 23 febbraio, si riferisce al Congo e al Sud Sudan come nell’estate 2013 si riferì alla Siria. Quell’anno chiese pace per quel Paese e un già riluttante presidente Obama, che stava per colpire il regime di Damasco, si fermò. Chissà se oggi in Vaticano il Papa del dialogo e il leader che vuole islamizzare un paese laico parleranno di Siria, argomento complicato almeno quanto il futuro di Gerusalemme. La Siria allontana la Turchia di Erdogan non solo dall’Unione europea ma anche dagli Stati Uniti.
L’attivismo di Erdogan nell’area è noto, la sua ostilità verso i curdi pure. Ostilità che non distingue fra sigle, Pkk (inserito fra le organizzazioni terroristiche dall’Unione europea) e Pyd-Ypg, i curdi che hanno combattuto i jihadisti dello Stato Islamico e soli, per mesi nel 2014, hanno resistito all’assedio di Kobane, città infine liberata nel gennaio 2015. Erdogan li considera tutti terroristi come ha confermato in una intervista con la La Stampa; e due settimane fa ha offerto il suo «Ramo d’ulivo», raid contro Afrin, zona curda in Siria. Ha motivato con «questioni di sicurezza dei confini», ha assicurato «siamo coperti dal diritto internazionale», il 30 gennaio ha annunciato «ci allargheremo a est verso la città di Manbij».
L’operazione turca «Ramo d’ulivo» è intanto benedetta dalla Russia che ne approfitta per sottolineare il fatto che se Erdogan si è mosso è colpa degli Stati Uniti, delle forze al confine che hanno creato e delle armi - sistemi missilistici portatili terra-aria - con cui equipaggiano i ribelli del Nord della Siria (da oggi Mosca ha un argomento in più: il jet russo abbattuto dai ribelli siriani, e gli Stati Uniti costretti a smentire la fornitura di missili MANPAD).
Erdogan non cita Manbij a caso, è una città geograficamente perfetta per far capire un po’ a tutti, forse più agli americani, che non intende retrocedere. La Russia ha spostato i suoi soldati per fare spazio ai soldati turchi in arrivo, gli americani hanno invece risposto no. «Non abbiamo alcuna intenzione di ritirarci da Manbij» ha detto a Cnn Joseph Votel, capo del commando centrale Usa. Manbij è a metà strada fra Kobane e Aleppo, è in quella zona che gli americani non hanno mai smesso di appoggiare i ribelli, sostengono i russi.
Tre giorni fa a Washington D.C., ricorda Bloomberg, il capo del Pentagono Jim Mattis ha detto che bisogna trovare un punto di equilibrio tra l’alleanza con la Turchia, paese Nato, e il supporto ai curdi. Ha soprattutto ventilato la possibilità di truppe americane sul campo a fianco di milizie curde in Siria come un modo per assicurare la sicurezza dei turchi. Se non è un avvertimento questo.
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