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Allarmi fake e teorie cospirazioniste: così agiva la fabbrica dei troll russa

Uno screenshot della pagina di citizen-journalism iReport di Cnn riporta una storia falsa su una bomba al fosforo in Idaho
Uno screenshot della pagina di citizen-journalism iReport di Cnn riporta una storia falsa su una bomba al fosforo in Idaho

Si inizia a capire che cosa è stato il Russiagate e soprattutto si inizia a capire con quali tecniche sia possibile cercare di destabilizzare l’opinione pubblica con la diffusione di messaggi falsi e cospirazionisti. Un grosso contributo arriva dalla pubblicazione del documento di 37 pagine realizzato dal procuratore speciale Robert Mueller, che pochi giorni fa ha accusato 13 cittadini russi e 3 aziende di Mosca di aver cospirato a favore dell’allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump.

Ma andiamo con ordine. Per capire al di là degli slogan di cosa stiamo parlando si può partire da un messaggio di tale Alice Norton su un forum di cucina il giorno del Ringraziamento del 2015: sosteneva che la sua famiglia si fosse sentita male dopo aver acquistato un tacchino da Walmart. In poche ore il messaggio venne postato anche su twitter da migliaia di account. Cosa c’entra il Russia gate? C’entra, perché stando all’approfondita inchiesta del Wall Street Journal gli account erano legati all’Internet Research Agency, la cosiddetta fabbrica dei troll di San Pietroburgo che secondo l’inchiesta americana interferì nella campagna elettorale americana. E dietro la quale ci sarebbe l'oligarca Yevgeny Prigozhin, amico dai primi anni Novanta di Vladimir Putin.

Quello fu solo l’ultimo step. Il primo, o uno dei primi, fu quel messaggio allarmante sui tacchini di Walmart: il quotidiano finanziario americano ha analizzato 221.641 tweet e concluso che i troll russi tentarono di creare caos e paura sulla base di eventi falsi anche anni prima delle elezioni. Con temi che nulla avevano a che fare. Una sorta di test per capire che potenzialità avesse un simile intervento sull’opinione pubblica. Dice Keir Giles, esperto in tematiche di sicurezza e Russia per il Chatham House think tank di Londra, al Wsj: «Stavano testando che cosa può succedere se si lancia una sorta di attacco twitter per creare panico. Per poi sedersi, valutare i risultati, vedere che cosa funziona e cosa no».

Sembra che l’intervento russo avesse tre obiettivi, distinti nel tempo ma probabilmente consequenziali: prima creare divisione, poi indebolire Hillary Clinton - e infatti i troll diedero sostegno anche a Bernie Senders, non solo a Trump. Solo che attaccarono anche Ted Cruz e Marco Rubio, da cui il terzo obiettivo: favorire Trump.

New York Times e Washington Post hanno parlato con le persone che hanno lavorato come troll a San Pietroburgo. I racconti convergono: gli veniva chiesto di scrivere documenti su varie teorie cospirazioniste antiamericane, farle girare sui social network; si lavorava 12 ore al giorno in stanze con le tapparelle abbassate, appiccicati l’uno all’altro.

Oltre agli account fake, i troll organizzavano manifestazioni e proteste in varie città americane. Secondo il New York Times ad alcune di queste hanno partecipato membri dello staff elettorale di Trump. Infine l’attività prevedeva l’acquisto di spot online a sfondo politico. Spesso su Facebook, come noto. Nel documento realizzato da Mueller il nome del social guidato da Mark Zuckerberg compare 35 volte.

Per dimostrare la buona fede di Facebook nella vicenda, dopo mesi di critiche durissime, Rob Goldman, vice presidente per la pubblicità di Facebook, non appena sono stati resi pubblici i documenti si è lasciato andare a un tweetstorm dicendo in sintesi che ora era evidente come Facebook avesse collaborato con le autorità americane e come le accuse fossero state eccessive.

Primo: diverse pubblicità dal network russo erano arrivate dopo le elezioni. Secondo: «L’obiettivo principale delle propaganda russa era dividere l’America usando le nostre istituzioni, come libertà di parola e social media, contro di noi. Ha lavorato estramente bene. Ora siamo divisi come nazione». Come nota Wired, con i suoi 1600 follower il manager non avrebbe pensato di essere ritwittato da Trump. Il che ha trasformato un tweet che voleva essere personale, ma di difesa aziendale, in un tweet politico. E lacunoso. Come detto prima, i post sponsorizzati furono solo una parte della campagna e ebbero 11 milioni di visualizzazioni contro i 150 milioni degli account fasulli. Wired aggiunge che Goldman ha dovuto scrivere una mail interna di scuse ai colleghi di Facebook. Perché con quel tweet, inconsapevolmente, rischiava di contestare il lavoro di Mueller: «Il procuratore speciale ha molte più informazioni su quanto è successo rispetto a me».

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