È la difesa del proprio vantaggio tecnologico la nuova ossessione di Washington nei rapporti con Pechino. L’appettito della Cina per segreti industriali e pionieri dell’hi-tech ha soppiantato la manipolazione dello yuan come minaccia numero uno, tanto che il presidente Donald Trump ha fatto della tutela del patrimonio tecnologico degli Stati Uniti una priorità nella sua «Strategia per la sicurezza nazionale». È questo un fronte parallelo a quello commerciale e sul quale Washington si muove in linea con l’Europa, anziché in contrasto.
«Ladri» di proprietà intellettuale
L’Amministrazione Usa si sta attivando su due piani: da un lato, la scorsa estate il ministero del Commercio ha lanciato un’indagine per dimostrare che la Cina “ruba” tecnologie americane, imponendo alle aziende che operano sul suo mercato di condividere i propri segreti industriali con partner locali. Per questa via si potrebbe arrivare a una nuova salva di misure “punitive” contro Pechino e allo stop agli investimenti cinesi nei settori in cui la Cina non apre ai capitali Usa.
Lo scudo sugli investimenti
C’è poi un secondo piano d’azione. Secondo Rhodium Group, negli ultimi 5 anni, dalla Cina sono arrivati oltre 116 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri (Ide) negli Usa. Un’offensiva che si concentra in misura crescente su società di frontiera nello sviluppo della robotica, dei veicoli senza pilota, dell’intelligenza artificiale e che preoccupa sempre più Washington. Pechino non fa mistero di voler diventare una superpotenza mondiale nell’information technology, nell’automazione e nell’aerospazio. E per raggiungere i propri obiettivi, non ha mai disdegnato condotte ai limiti della legalità e oltre, come il cyberspionaggio.
Nel febbraio del 2017, un report del Pentagono aveva lanciato l’allarme sulla velocità con cui tecnologie sensibili, anche sotto il profilo militare, vengono trasferite alla Cina in processi che sfuggono del tutto alla consapevolezza del Governo Usa, per esempio attraverso il finanziamento di start up e l’acquisizione di quote di società ai primi passi della loro attività.
Cfius, l’agenzia che filtra gli investimenti esteri
Per fare argine, l’Amministrazione Trump si affida sempre di più a un’agenzia finora piuttosto oscura: il Cfius - Commitee on Foreign Investment in the United States. Creato da Gerald Ford nel 1975 e potenziato negli anni 80 da Ronald Reagan contro lo shopping giapponese, il Cfius è presieduto dal segretario al Tesoro ed è composto da membri dei dipartimenti di Stato, Difesa, Giustizia, Commercio, Energia e Sicurezza nazionale. Il suo compito è esaminare gli investimenti in ingresso negli Usa che hanno rilevanza per la sicurezza nazionale. È stata appunto questa agenzia ad aver bocciato l’acquisizione di Qualcomm da parte di Broadcom. L’ultimo di una serie di affari bloccati negli ultimi mesi.
Cfius invia i suoi pareri al presidente degli Stati Uniti, che ha il potere di fermare gli accordi che non superano l’esame. Con Trump, questa agenzia è diventata sempre più centrale: è «il bazooka definitivo nel suo arsenale protezionistico», ha affermato Hernan Cristerna di JPMorgan Chase. E nei prossimi mesi potrebbe trasformarsi in un vero e proprio Cerbero, con il potere di bloccare anche l’export di tecnologie Usa all’estero.
Più poteri al Cfius
A novembre del 2017, un gruppo bipartisan di parlamentari di Camera e Senato ha presentato una proposta di legge che punta a rafforzare e ampliare mandato e poteri dell’agenzia. Il nome della legge è già indicativo: Foreign Investment Risk Review Modernization Act. La sua portata è così vasta da aver già messo in allarme alcuni big dell’information technology Usa, con Ibm in prima fila, che temono di non poter più operare all’estero e in Cina in particolare attraverso joint ventures. Se approvato, il provvedimento le renderebbe soggette alla giurisdizione del Cfius, che così estenderebbe la propria attività di vigilanza agli investimenti in uscita dagli Usa. Sarebbe infatti anche attraverso questo canale che, secondo i proponenti della legge, la Cina riuscirebbe a estorcere conoscenze e segreti industriali agli Usa.
Anche l’Europa è in allarme
Almeno su questo fronte, Washington è in linea con Berlino e con l’Europa. Quando lo scorso mese la cinese Geely ha annunciato l’acquisizione del 10% circa delle azioni di Daimler, la proprietaria di Mercedes-Benz, le reazioni in Germania sono state a dir poco allarmate. Anche Berlino teme infatti di vedersi sottratto know-how tecnologico da aziende cinesi sponsorizzate dal Governo di Pechino. L’anno scorso, Berlino ha rafforzato i controlli sugli investimenti dall’estero nelle «infrastrutture critiche» e ha fatto fronte comune con Francia e Italia per il varo di meccanismo di salvaguardia a livello europeo. L’iniziativa potrebbe sfociare nella costituzione di un’agenzia Ue simile al Cfius statunitense.
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