Fatta eccezione per la sfida posta dalla Cina, dopo un anno di amministrazione Trump non c’è rimasto molto ad avvicinare Stati Uniti e Unione Europea: le relazioni tra Vecchio e Nuovo continente hanno vissuto alti e bassi, ma non sono mai state così tese. È in questa cornice che Bruxelles dovrà convincere Washington a rendere definitiva l’esenzione dai dazi su acciaio e alluminio, per ora solo temporanea.
Trattativa in salita
Raggiungere un accordo reciprocamente vantaggioso con l’amministrazione Trump non è semplice, come sanno Canada e Messico, da mesi impegnati nei negoziati per riscrivere il Nafta e sottoposte allo stesso ricatto: cedere alle richieste degli Stati Uniti o subire restrizioni all’export.
Washington chiede da tempo più facile accesso al mercato europeo in una serie di settori. C’è subito un ostacolo: nei confronti del made in Usa, l’Europa è tenuta ad applicare gli stessi dazi che impone ai prodotti di tutti i Paesi con cui non ha accordi di libero scambio. Sono le regole della Wto. Sarà quindi difficile discutere di riduzione delle tariffe al di fuori di un’intesa generale come l’ormai sepolto Ttip, naufragato ancor prima che si insediasse l’amministrazione Trump, anche per le resistenze europee ad abbassare le difese su settori sensibili. Gli stessi sui quali Washington ora vorrebbe tornare a trattare, dopo aver messo la pistola sul tavolo.
L’avversario comune
A unire le due sponde dell’Atlantico resta allora soprattutto il comune interesse a difendersi dallo sviluppo economico e tecnologico della Cina. Sia Bruxelles che Washington negano a Pechino lo status di economia di mercato e la accusano di sostenere la propria crescita con pratiche scorrette: cyberspionaggio, sussidi pubblici, manipolazione dello yuan, scippo di tecnologie attraverso l’obbligo di costituire joint venture con partner locali. Usa e Ue sono preoccupati in egual misura anche dalle acquisizioni di società di punta in settori strategici e innovativi da parte di gruppi cinesi. Sia negli Usa che in Europa, la responsabilità della crisi della siderurgia viene addossata alla sovrapproduzione cinese.
L’Europa, però, non ha intenzione di affrontare Pechino imbracciando il bazooka dei dazi a tappeto, con il rischio di scatenare una guerra commerciale e abbattere il sistema multilaterale della Wto.
Sempre più distanti
Oltre ai 150 miliardi di dollari di deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti della Ue, è lunga la lista dei punti di divergenza, se non proprio di attrito: molti sono storici, altri si sono aperti durante l’amministrazione Trump, altri ne sono stati esacerbati. A partire dalla critica alla Wto, che i falchi alla guida della politica commerciale Usa estremizzano fino a metterne in discussione la ragion d’essere.
Sul piano commerciale c’è l’annosa questione dell’utilizzo degli Ogm: gli Usa considerano una ingiustificata barriera al proprio export di mais e soia i rigidi vincoli che ne limitano l’impiego nella Ue in nome della tutela della salute. Un discorso analogo vale per la carne di manzo agli ormoni. Gli europei, dal canto loro, vorrebbero dagli Stati Uniti una efficace tutela delle produzioni tipiche.
Altro fronte antico, ma riacceso con virulenza tutta nuova, è quello del tasso di cambio: a gennaio, il segretario al Tesoro Usa, Steven Mnuchin, ha mandato in fibrillazione i mercati valutari con inusuali dichiarazioni a favore del dollaro debole (poi ritrattate), che hanno spinto la Bce ad altrettanto inusuali “bacchettate”.
Sempre più teso è poi il braccio di ferro sulla tassazione dei giganti del Web e non solo, con il corollario di maxi-sanzioni comminate dalla Commissione Ue a gruppi Usa.
L’intesa si è persa anche sull’accordo sul nucleare iraniano: gli europei lo difendono, gli americani lo vorrebbero affossare, tanto più con il falco John Bolton come nuovo consigliere per la sicurezza nazionale. Ma divergenze significative rischiano di aprirsi anche su Medio Oriente e Russia. La Casa Bianca ha inoltre messo con forza sul tavolo la questione della spesa militare, richiamando gli alleati a rispettare il target del 2% del Pil indicato dalla Nato. Un parametro che in Europa rispettano in pochi.
Sull’ambiente, l’applicazione nell’energia dell’America First ha spinto Trump a stracciare l’accordo di Parigi: uno schiaffo all’Europa per difendere la morente industria del carbone.
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